Reddito di cittadinanza, la guerra dei cliché tra sfuttatori e fannulloni

Da un po’ di tempo si consuma sui giornali la guerra ideologica sul Reddito di cittadinanza, un po’ per mancanza di notizie, un po’ per il rientro obbligato nella normalità del cicaleccio post Lockdown. Come ogni guerra ideologica che si rispetti, ciascuno schiera come soldati i propri migliori cliché, con protagonisti rigorosamente stereotipati: camerieri, muratori, cuochi, addetti alle pulizie, tutti sfruttati ça va sans dire; oppure, dall’altra parte della scala sociale, ristoratori, albergatori, proprietari di lidi e locali, titolari di saloni da bellezza e chi più ne ha più ne metta, ma – ça va sans dire bis – tutti rigorosamente onesti e disposti a offrire paghe giuste e più che dignitose.

Il cliché dalla parte dell’imprenditore – arroccato sul concetto di sana indignazione – funziona più o meno così: ho bisogno di gente che abbia voglia di lavorare per il mio ristorante o per il mio albergo, ma non trovo nessuno disponibile perché per colpa del Reddito di cittadinanza nessuno ha più voglia di lavorare. Ergo, il lavoro c’è – e ce n’è pure tanto – ma questa misura assistenziale ha alimentato la schiera dei fannulloni, anzi è un vero e proprio incitamento al fancazzismo. Le varianti al cliché dell’imprenditore in cerca di lavoratori sono due: la tragedia di quello costretto a chiudere per assenza di manodopera e l’indignazione di quello che paga tutte le tasse e urla contro i truffatori del Reddito di cittadinanza, quasi sempre idraulici e muratori che lavorano già in proprio e in nero, oppure galeotti e affiliati alle cosche (quando li scoprono la notizia va sempre in prima pagina).  

Il cliché da parte del percettore di Reddito di cittadinanza, invece, ci porta nel regno dell’umana ingiustizia. Mostra camerieri e addetti vari pagati (in nero) pochi euro l’ora per 12-14 ore al giorno, sfruttati da imprenditori senza scrupoli che non versano contributi e non pagano le tasse. E allora perché farsi sfruttare se c’è il Reddito di cittadinanza, si chiedono i sostenitori della misura voluta dai pentastellati? Perché non pagate il giusto, se davvero cercate lavoratori per i vostri lidi e ristoranti, e perché non versate i contributi? Le varianti al cliché pro Rdc ruotano intorno a coloro i quali – pur non essendo stata loro offerta l’alternativa del lavoro – lavorano lo stesso a favore della propria comunità, oppure indugiano nelle vicinanze di quelle famiglie che grazie al sostegno dello Stato riescono a condurre un’esistenza un po’ più dignitosa.

In questa guerra dei cliché SUDeFUTURI magazine cerca di fare un po’ di chiarezza con l’approfondimento di Giorgia Caianiello che trovate in home page accanto a questo editoriale o potete leggere a partire da questo link.

I numeri dicono che il Reddito di cittadinanza funziona come misura di contrasto alla povertà ma fallisce pesantemente sull’altro teorico pilastro della legge: il sostegno alla ricerca di un lavoro che invece dovrebbe essere ottenuto grazie al supporto di navigator, uffici di collocamento et similia.

Torti e ragioni – senza paura di essere tacciati di cerchiobottismo – non stanno pienamente da una parte né dall’altra.

Il welfare italiano – ad esempio – può sostenere una misura che per dare il giusto sostegno a chi vive al di sotto della soglia di povertà rischia di essere un deterrente alla ricerca di lavoro, ingrassando la già folta schiera degli italici furbetti? Può, ancora, un moderno sistema imprenditoriale, tollerare che tanti giovani entrino nel mercato del lavoro senza garanzie e con paghe da fame?

Altro che guerra ideologica sui giornali e rincorsa ai cliché: tra leggi che non funzionano e un sistema inadeguato – che non fa incontrare domanda e offerta di lavoro ma domanda e offerta di clientele, truffe e malversazioni – pagano i giovani e le fasce deboli. Possiamo sperare che un giorno i temi della povertà e della disoccupazione siano affrontati fuori dalla propaganda? Iniziamo a sperare sì, uscendo dai cliché.

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