Si scrive una nuova pagina sull’attentato alla Sinagoga di Parigi

La Corte d’appello deve decidere se confermare il proscioglimento del docente Hassan Diab oppure, accogliendo le richieste della Procura e le istanze delle parti civili, se mandarlo a processo

Ci sono conflitti che non finiscono mai perché, sotto la polvere lasciata dallo scorrere degli anni, c’è una scintilla che cova nell’ombra, che suscita ricordi e, con essi, dolore e che è sempre pronta ad innescare nuovi incendi. Conflitti che, ormai, fatte poche eccezioni, si riducono a rivendicazioni territoriali o a contrasti religiosi. Oppure, ed è una storia a parte, ce ne sono come quello dello scenario mediorientale. È un conflitto ininterrotto (con tregue che mai sono state veramente tali) che risale a decine e decine di anni fa e la cui nascita “ufficiale”, anche se il termine non è esatto, potrebbe risalire al 2 novembre del 1917, data della “dichiarazione Balfour”, quando il governo britannico si disse favorevole a “l’insediamento in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico”. Da lì la storia della regione è stata interpretata in modo diverso, a seconda da chi si esercitava nell’analisi. In modo positivo dagli ebrei che, dopo il genocidio, videro nella Palestina la terra dei loro padri (ma non pensarono che era la terra anche dei padri di altri) e che, nei decenni, hanno consolidato il territorio di Israele – proclamato ufficialmente, da David Ben Gurion il 14 maggio del 1948 – e, quindi, nel 1967, lo hanno ampliato sui confini reali di oggi. 
Gli arabi, invece, come fosse una ferita inferta alle carni dell’Islam, hanno dovuto vedere sventolare il vessillo con la Stella di David persino sulle mura di al Quds, la città santa dell’Islam. Una guerra che – tra dichiarazioni ufficiali e no – si combatte ancora oggi e non solo in Medio Oriente, come raccontano le decine di attentati, contro obiettivi israeliani o ebraici anche lontano da Israele con relative ritorsioni, ma anche nei confronti di obiettivi civili lontani. Fatti che hanno insanguinato le cronache degli ultimi cinquant’anni e più.

quando il meccanismo della giustizia si inceppa

Quasi sempre la “mano” dietro gli attentati è stata chiara, inequivocabile nelle sue responsabilità. Per altri casi, invece, il meccanismo della giustizia si è inceppato. Come per l’attentato alla sinagoga di rue Copernic, a Parigi, che, il 3 ottobre del 1980, provocò la morte di quattro persone – altre 46 rimasero ferite – e che ancora oggi cerca un colpevole.Il perché ci si torni ad occupare oggi di quell’attentato (che macchiò di sangue le strade di Parigi per la prima volta dopo quelli firmati dall’Oas, che, negli anni ’60, fiancheggiò chi si opponeva all’indipendenza dell’Algeria) è collegato alla circostanza che tra un mese la Corte d’appello di Parigi dovrà prendere una decisione, a suo modo storica, sulla procedibilità nei confronti del solo imputato, Hassan Diab, oggi sessantasettenne, libanese d’origine, ma anche con la cittadinanza del Canada, dove è stato per molti anni docente di sociologia all’università di Ottawa. La corte d’appello dovrà ufficializzare la sua decisione il 27 gennaio. E qualcuno ha colto la coincidenza della data con lo stesso giorno del 1945, quando i soldati russi della sessantesima armata, al comando del generale Kurockin, entrarono nell’inferno di Auschwitz, come i tedeschi chiamavano la località polacca di Oświęcim. Stesso giorno, a settantasei anni di distanza. Quasi sempre, dietro gli attentati, la “mano” è chiara, inequivocabile nelle sue responsabilità, anche se individuare l’esecutore materiale è sempre difficile. Per altri casi, invece, il meccanismo della giustizia si è inceppato. Come appunto per quello alla sinagoga di rue Copernic.

la bomba del 3 ottobre 1980

La bomba esplose alle 18,40 di venerdì 3 ottobre del 1980. Un attentato che provocò una enorme emozione in Francia, che assistette al primo atto violento contro ebrei dalla fine della seconda Guerra mondiale. L’esplosione distrusse vetrate e muri della sinagoga, negli istanti in cui il rabbino Williams stava leggendo la preghiera dei morti. L’onda d’urto fu tale che alcune autovetture, sia tra quelle parcheggiate che alcune di passaggio, furono scaraventate a molti metri di distanza travolgendo persone e cose. L’attentato era stato programmato meticolosamente, alla vigilia dello Shabbat durante la festa di Shimrat Torah (la festa della gioia). L’esplosivo (dieci chilogrammi di pentrite) era stato piazzato sulla sacca laterale di una motocicletta, una Suzuki 125 di colore blu, parcheggiata ad una decina di metri dall’ingresso della sinagoga, al numero civico 23 di rue Copernic. Il bilancio doveva essere molto più pesante perché se la bomba fosse esplosa appena pochi minuti prima avrebbe fatto strage dei ragazzi usciti dalla sinagoga dove si erano celebrati il Bar Mitzvah di tre ragazzi ed il Bat Mitzvah di due loro coetanee.    

le indagini per un evento che aveva colto di sorpresa gli investigatori

Come purtroppo accade nel caso di attentati contro obiettivi non militari, l’esplosione uccise e ferì, indipendentemente dalla religione di chi ne fu coinvolto. Philippe Boisson, appena 22 anni, passava casualmente in moto quando fu ucciso sul colpo dalla deflagrazione, che investì dilaniandola anche Aliza Shagrin, presentatrice della tv israeliana, che era in vacanza a Parigi. Quel venerdì morì anche Jean Michel Barbè, abituale frequentatore della sinagoga. Dopo due giorni di agonia morì Hilario Lopez Fernandez, di nazionalità portoghese, che lavorava come portiere nell’hotel Hugo, sull’altro lato di rue Copernic. Le indagini, per un evento che aveva colto di sorpresa gli investigatori e i magistrati francesi, si mossero in più direzioni, la prima delle quali riguardava gli ambienti dell’estrema destra francese (molti esponenti della quale furono prelevati ed interrogati), ma si spense nell’arco di pochi giorni. Un altro troncone aveva portato a due ciprioti, ben presto scagionati, nonostante il fatto che la matrice confessionale, quindi antisemita, fosse abbastanza scontata per un attentato alla sinagoga, che apparteneva all’Union libéral israélite de France. Con il passare degli anni l’inchiesta sembrò perdere di forza, tanto che dell’attentato alla sinagoga e delle sue vittime si cominciò a parlare con sempre minore partecipazione, a conferma che il tempo induce all’assuefazione anche davanti a crimini orrendi. L’indagine, dopo l’impasse iniziale determinato dai sospetti sulle frange più violente della destra francese, spostò la sua attenzione verso alcuni gruppi terroristici in Medio Oriente.

La svolta nel 2007 con i sospetti su Hassan Diab

Hassan Diab

Fino a quando, nel 2007, il giudice antiterrorismo Marc Trévidic (che aveva preso il posto di Jean-Louis Bruguière) cominciò a sospettare che il capo del commando stragista potesse essere Hassan Diab, già all’epoca professore di sociologia a Ottawa. Un insospettabile, e non solo per il suo lavoro. Le indagini cominciarono ad accumulare indizi su indizi a carico di Diab, che ha sempre sostenuto di essere innocente. Nel 2008 il docente fu arrestato a Gatineau, in Quebec, in esecuzione di un mandato di cattura internazionale in cui figurava come il solo accusato dell’attentato. Nel 2014 fu nuovamente arrestato ed estradato in Francia con l’accusa di essere stato lui a lasciare l’esplosivo nella sacca delle motocicletta.

Un’accusa poggiata su “note d’intelligence”

Un’accusa gravissima che la procura parigina poggiava (e lo fa ancora oggi) su “note di intelligence convergenti e reiterate” ed anche con la somiglianza di Diab con gli identikit realizzati nel 1980. Oltre ad altri elementi, come un passaporto, a nome di Diab e trovato nella disponibilità di un terrorista arabo, che attestava spostamenti in entrata ed uscita dalla Spagna, dove il commando aveva la sua base e da dove sarebbe partito alla volta di Parigi. Per la procura sono importanti, ai fini dell’accusa, anche le comparazioni grafiche tra la scrittura di Diab e quella dell’uomo che, dopo avere acquistato la motocicletta usata nell’attentato, soggiornò nei giorni dell’attentato in un hotel della città. In particolare, Diab è stato accusato di fare parte, a cavallo degli anni ’70 e ’80, di un piccolo gruppo terroristico palestinese, il Fronte popolare per la liberazione della Palestina-Comando speciale (o Operazioni speciali). Secondo gli inquirenti, gli appartenenti alla cellula avevano fatto in precedenza parte del FPLP di Georges Habash. Il gruppo fu anche sospettato di essere all’origine di altri attentati in Europa, come ad Anversa nel 1981, quando, anche in quella circostanza, una bomba esplose davanti ad una sinagoga, con un bilancio di tre morti ed una sessantina di feriti. Stesso obiettivo, stessa tecnica, forse stesso cervello.

il docente da sempre professa la sua innocenza

Hassan Diab da sempre protesta la sua innocenza, dicendo che nel giorno dell’attentato si trovava a Beirut per sostenere un esame universitario. È uno stillicidio di decisioni da parte della magistratura francese quello che segue. Dopo 18 mesi di detenzione, il professore di sociologia viene rilasciato (anche se con un braccialetto elettronico) e posto agli arresti domiciliari. L’indagine ufficiale si chiude il 28 luglio 2017, quando i giudici inquirenti hanno annunciato di aver completato le indagini. Il rilascio del professore, deliberato l’8 novembre 2017 da un primo giudice (e che gli ha consentito di tornare in Canada), viene annullato il 14 novembre successivo dalla Corte d’appello di Parigi. Ora tutto è tornato nella mani della magistratura parigina che, in sede di Corte d’appello, se decidere se confermare o meno il proscioglimento di Diab oppure, accogliendo le richieste della procura e le istanze delle parti civili, mandarlo a processo. Se si dovesse deliberare secondo la linea dell’accusa, pubblica e privata, del processo dovrà occuparsi una corte d’assise speciale. Hassan Diab, dal Canada, ribadisce che con la sua remissione in libertà “finalmente giustizia sia stata fatta”. Per il suo difensore canadese, Diab è “il Dreyfus di questo secolo” che, a differenza dell’ufficiale francese, è diventato “un capro espiatorio” perché musulmano.

Quale sia la decisione l’attentato resta una delle pagine oscure del terrorismo

Quale che sia la decisione della corte speciale di Parigi, la vicenda dell’attentato alla sinagoga di rue Copernic resta una delle pagine oscure della storia del terrorismo perché chi l’ideò voleva fare una strage, nel senso vero del termine e non nell’uso estemporaneo che oggi si fa di esso. I morti dovevano essere molti di più: erano centinaia i giovani israeliti che affollavano il marciapiede davanti al tempio sino a pochi istanti prima che la pentrite deflagrasse. Un attentato che voleva non solo uccidere, ma cancellare una intera generazione di “ebrei” perché, se andato a buon fine, l’atto avrebbe lasciato per terra decine, decine ed ancora decine di giovani corpi. È forse questo, più d’ogni altra considerazione di carattere giudiziario, che deve muovere i magistrati nella ricerca della verità. Un attentato, come quello alla sinagoga parigina, se i suoi ideatori avessero raggiunto il loro obiettivo, avrebbe scritto una pagina di dolore e sofferenza, con un testo rosso sangue. 

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