Quando l’Islam diventa uno strumento per reprimere il dissenso

IIn Tunisia si sono attivati sette procuratori per interrogare Emna Chargui condannata per aver rilanciato un post umoristico su Facebook

La percezione “occidentale” della libertà d’espressione, del diritto dell’individuo di esprimere le proprie idee senza per questo incorrere nell’ira delle Istituzioni è sempre stata un ostacolo per la comprensione delle dinamiche di alcune società, come quelle che poggiano la loro vita quotidiana sulla applicazione pratica dei dettami dell’Islam. 

L’Islam che apre le menti – come spesso lo descrivono coloro che abbracciano questa religione, mettendola in contrapposizione a quelle originarie – sovente viene utilizzato strumentalmente se si tratta di salvaguardare il proprio “perimetro di potere”. Cosicché la caccia al contestatore viene fatta passare per l’esercizio di una legittima azione mirata a colpire l’apostasia, l’irrisione dell’Islam, la violazione dei suoi dettami. 

la religione come clava per schiacciare gli oppositori

Quasi sempre, quindi, la religione è usata come una clava per schiacciare gli oppositori che, dal momento che contestano il Potere e le sue diramazioni, possono tranquillamente essere accusati di offendere il Corano che dello stesso Potere è stampella, anzi piedistallo.

D’altra parte è evidente che anche in quelle Costituzioni che, apparentemente, difendono a spada tratta la laicità dello Stato sono stati lasciati margini per ricorrere alla religione come motivazione quando si tratta di dovere trovare un appiglio per accusare chi contesta, anche se quest’ultimo agisce nell’ottica di una semplice espressione di dissenso rispetto a chi sta al piano di sopra e guida il Paese come uno spregiudicato burattinaio. 

gli esempi di algeria e tunisia

Paesi come l’Algeria e la Tunisia, per il loro passato fortemente caratterizzato dall’essere state, sia pure in circostanze e con effetti diversi, obiettivo della crudele macchina del colonialismo, non si sono mai affrancate dalla interdipendenza con la religione. Che viene spesso piegata a fini di politica interna, attribuendole un ruolo che essa non ha mai rivendicato, “limitandosi” (anche se le sue prescrizioni sono cogenti, non potendosi ridurre a semplici indicazioni) a impartire regole di comportamento. 

Prendiamo l’Algeria di oggi e quella di ieri, uno “ieri” non storico, ma molto vicino ai nostri tempi. Se non avesse fatto appello – convintamente o meno, strumentalmente o meno è difficile dirlo – alla laicità asserita dello Stato, la dominante nomenklatura militare algerina non avrebbe potuto serrare le file e scatenare una guerra di sterminio contro gli islamisti che, usciti vittoriosi dalle urne, una volta al potere avrebbero portato il Paese in pieno oscurantismo giustificando tale manovra con l’osservanza cieca ed ubbidiente del Corano. Si sarebbe quindi arrivati alla creazione di una teocrazia in cui la casta militare avrebbe visto enormemente restringersi le sue aree politiche ed economiche di potere. 

Ma in Algeria bisogna sempre fare i conti con un popolo che, sebbene dallo Stato laico (almeno sino a quando il settore energetico inondava il Paese di royalties) abbia avuto tanto, non ha mai resecato i suoi legami con la religione. Con una aggravante da addebitare ai ciechi reggitori del potere: è stato stoltamente consentito l’arrivo in Algeria a decine di predicatori che, imbevendo i loro sulfurei sermoni dei dettami delle correnti più conservatrici dell’islam, hanno progressivamente minato le basi del concetto di Stato laico orgogliosamente sbandierato dall’establishment in un Paese in cui i vari presidenti sono stati quasi tutti espressi dalla casta di militari.

la “contaminazione” delle istituzioni

In Algeria sono arrivati chierici islamici che, dai regni del Golfo, sono stati stati sostenuti, foraggiati e dotati di un ricco portafoglio per distribuire prebende a piene mani, accumulando consenso tra le parti più povere della popolazione. Di quelle fasce di algerini che prima vivevano grazie ai soldi provenienti da petrolio e gas e che hanno cominciato a pensare che l’islam possa rivolvere i loro problemi di sopravvivenza quotidiana.

Nemmeno la Tunisia sembra essere immune da questo processo di lenta contaminazione delle Istituzioni da parte di chi fa ricorso alla religione come strumento di lotta per gli oppositori. Che possono essere coloro che esercitano un mandato politico, ma anche quelli che esprimono idee non in linea con lo Stato che si vorrebbe e che non è quello reale. Perché la Tunisia è molto più laica di quello che si vuole fare pensare, con una gioventù abituata a fare sentire la sua voce senza molta paura. Un lascito questo forse del tanto vituperato dittatore Zine El-Abidine Ben Ali, che ha fatto il male del suo Paese, lasciandolo in mano ad una banda di grassatori (il suo clan familiare) che lo ha spolpato sino all’osso, ma che aveva messo in riga i partigiani dell’islam politicizzato. 

Emna Chargui condannata a sei mesi per aver rilanciato un post su Facebook

Il dittatore – che con gli oppositori aveva mano a dir poco pesante, spedendoli in carcere e buttando la chiave, quando non decideva di farli sparire – non avrebbe mai mandato sotto processo una giovane blogger per avere pubblicato su Facebook il post umoristico di un ragazzo belga che, parafrasando lo stile del Corano, ha scritto una finta “sura” in cui spiega alcune elementari norme di igiene personale per combattere il contagio da Covid-19.

Per questo Emna Chargui è stata processata e condannata a sei mesi di carcere (senza sospensione condizionale della pena), con il solito corollario, sui social, di minacce di morte e stupro. La ragazza era stata convocata il 4 maggio in procura dove, per ore, era stata interrogata da sette sostituti: sì, sette procuratori, manco fosse una sanguinaria terrorista. Emna non è stata lasciata sola, ma davanti alla macchina della Giustizia, quando essa decide di schiacciarti, non hai molto da opporre. 

“Possiamo capire – ha detto Khitem Bargaoui, rappresentante a Tunisi della Federazione internazionale per i diritti umani – che il testo si scontra con la sensibilità, ma non che porti a un processo. Emna non ha prodotto questo contenuto, l’ha semplicemente trasmesso. Voleva far circolare alcune informazioni molto importanti sul virus, in un modo diverso, con umorismo”. 

Ma forse la Tunisia non è più quella di prima e parlare di religione in modo diverso fa finire in una cella. 

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