Dal 10 giugno i 7 episodi di “Curon” sulla piattaforma gigante dello streaming: il dialogo intimista sulla serie e sui primi 40 anni del regista calabrese
Si può scappare dal proprio passato ma non da sé stessi.
È il claim di Curon, 7 episodi per la prima stagione, su Netflix dal 10 giugno. A Curon, comune italiano di poco più di duemila anime nella provincia di Bolzano, al confine di Austria e Svizzera, c’è il lago artificiale di Resia, realizzato nel 1950 per la produzione di energia idroelettrica sommergendo il paese e ricostruendolo a monte. Uno specchio d’acqua, «la luce e il riflesso del lago che cambiano in continuazione» intorno al campanile, unico ad emergere a testimonianza di un passato diverso.
Non puoi nasconderti da te stesso. Ogni luogo è suggestione. Curon di più. E suggerisce un percorso interiore, come quello fatto da Fabio Mollo, regista con Lyda Patitucci della serie prodotta da Indiana Production e scritta da Ezio Abbate (Suburra) con Ivano Fachin, Giovanni Galassi, Tommaso Matano.
UN CLAIM AUTOBIOGRAFICO
Quanto c’è di autobiografico nel claim scelto per Curon, soprattutto dopo il lockdown?
«Il claim è il tema della serie. Quando ho letto la sceneggiatura del primo episodio era già chiaro il tema, declinato in un mondo di genere, in una struttura, in una chiave di racconto thriller, supernaturale. Il tema dei personaggi, il tema emotivo della storia è proprio quello, risuonava in tutte le sceneggiature, ancor prima di leggerlo separato nel claim».
Lo slogan sottolinea il messaggio della serie in modo forte e incisivo: è la sintesi di una sceneggiatura, una regia, una storia, tanti personaggi. Arrivato nella parte finale della lavorazione, ma già evidente a livello emotivo ed emozionale.
«Quando l’ho letto la prima volta, questo tema mi apparteneva: era qualcosa che avevo già raccontato e indagato nei miei primi due film, due film sull’identità, sulla ricerca. Sono anche quelli di Curon personaggi alla ricerca di sé stessi».
ALLA RICERCA DI SÉ STESSI
Curon arriva al giro di boa, a cavallo dei primi 40 anni di un ragazzo con la faccia pulita, che dimostra molti meno anni di quelli che ha. «Vengo scambiato come stagista sul set, non posso farci niente». Tra le tante cose che fa, Fabio Mollo insegna regia cinematografica alla Rufa, la Rome University of Fine Arts. Il primo giorno, al primo caffè, la signora al bar gli ha chiesto “Sei al primo anno, vero?”».
Nato (il 27 aprile di 40 anni fa) e cresciuto nel quartiere Gebbione di Reggio Calabria, a 18 anni se ne va a Londra a studiare Visual Theory: Film History nella University of East London. Si laurea, torna in Italia in modalità quasi punk e realizza il suo primo cortometraggio. Sono passati diciassette anni dall’inizio della sua vita professionale, e Fabio Mollo è ancora alla ricerca.
«Questa vita è iniziata molto prima dei 40 anni, proprio quando mi sono avvicinato al cinema ed ho iniziato a scrivere storie, a raccontare storie, a creare personaggi. Inizi a farti domande, a creare un rapporto con la tua identità, con chi sei: un rapporto che puoi avere con parti di te stesso. I 40 anni forse mi hanno aiutato a celebrare un percorso con queste parti, iniziato molto tempo fa. E speriamo che vada avanti, anche perché continua la mia voglia di raccontare storie.
Non a caso Curon è arrivato a questo punto della mia vita: mi ha permesso di aprirmi a qualcosa di nuovo a partire da una base che è la mia – il racconto intimo e personale di personaggi – però all’interno di una struttura di genere e di thriller».
THRILLER E HORROR
Un genere nuovo il thriller, per Fabio Mollo. Almeno come uscita pubblica.
«In realtà è qualcosa che volevo fare da molto tempo. Qualche anno fa ho scritto un film che era un horror che uscirà presto, girato da un altro regista. Era un genere che già mi apparteneva, Netflix e Indiana mi hanno dato l’opportunità – finalmente – di realizzare questo sogno: riuscire a fare una serie in un racconto di genere, combinandolo con quello che è un racconto intimo e personale dei personaggi. Indiana, casa di produzione che ringrazio della fiducia datami nel fare questa serie, e Netflix ci hanno seguito passo passo, con un dialogo continuo, naturale, organico».
Marco Balzano, Premio Campiello nel 2015, lo ha scelto come partenza del suo romanzo Resto qui, raccontando: “Questo campanile che spunta dallo specchio del lago mi è venuto incontro, mi è sembrato davvero una storia”. La location è, in Curon, molto più che una location. È atmosfera ed è personaggio.
L’INIZIO DEL VIAGGIO
«Credo che chiunque si trovi al cospetto del campanile di Curon venga suggestionato da una storia: è un luogo che apre la testa e il cuore a queste suggestioni. Anche gli sceneggiatori hanno subito lo stesso fascino: la storia è partita dal posto. Quando sono arrivato la prima volta ho avuto quell’impatto lì. Avevo già letto la sceneggiatura, avevo iniziato a leggere il libro e diversi altri documenti sul lago. Già qualche anno fa mi aveva suggestionato e avevo iniziato a leggere qualcosa. Trovarmi di fronte agli occhi – dopo un lungo viaggio in mezzo ai monti, tra le cime innevate, il cielo cangiante in continuazione – la luce e il riflesso del lago che cambiavano in continuazione mi ha estremamente suggestionato. Così ho iniziato un viaggio che credo si possa fare solo attraversando quelle valli ed arrivando a vedere quel campanile.
«Ed è proprio quella la suggestione che abbiamo usato per la serie: le puntate di Curon sono un viaggio che inizia con la prima visione di questo campanile e poi ti porta in una direzione che ti sorprende, che ti emoziona, che ti spaventa, che ti fa vedere le cose in modo diverso, che ti svela cose che erano nascoste. Il lago e il campanile hanno e danno tutto questo: spero riescano a trasmetterlo anche attraverso tutta la serie».
LA NEVE A MAGGIO
«Il primo giorno in cui siamo andati a fare il sopralluogo, nonostante fosse maggio inoltrato, a un certo punto è iniziato a nevicare, e tutta la vallata si è ricoperta di neve. Ero con Lyda, la regista con cui firmo la serie: siamo rimasti colpiti ed emozionati. Abbiamo capito che Curon insegna anche come la natura sia molto più forte dell’uomo, e l’uomo non può controllarla, come non può controllare alcuni aspetti di noi che cerchiamo di controllare e di addomesticare. La natura, proprio come alcune parti di noi, non può essere addomesticata».
Il viaggio creativo è partito con il bianco immacolato della neve. Ed è stato un lavoro corale, intenso. Con il suono della campana del campanile nella testa prima che nelle orecchie.
«Abbiamo fatto un grande lavoro di ricerca per trovare il suono giusto delle campane da mettere nella serie. Sia io che Lyda siamo grandissimi appassionati del genere, e dunque abbiamo avuto tantissimo lavoro ma anche tantissima gioia e tantissimo divertimento nel farlo, proprio perché appassionati: sui suoni, sugli effetti speciali, su tutto quello che è la mitologia del racconto della serie».
L’ATTESA
A un certo punto il lavoro finisce. Ci si prepara all’uscita. Fabio è emozionato come la prima volta.
«Il 10 giugno sarà una giornata molto molto emozionante. Sento sulle mie spalle la responsabilità di un progetto così grosso, che uscirà contemporaneamente in 190 Paesi. È il culmine di un anno intenso di lavoro di tantissime persone. Una squadra pazzesca, un cast pazzesco, i produttori che ci hanno seguito giorno per giorno. È stato un viaggio meraviglioso, sento la responsabilità che il pubblico lo percepisca con la stessa passione con cui l’abbiamo fatto, che si appassioni alla storia, si appassioni al racconto, all’atmosfera, alla mitologia che abbiamo costruito su Curon. Spero di appassionare il pubblico, uscendo dallo schema serie italiana, serie non italiana, serie internazionale o non internazionale. Netflix ormai ci permette di ragionare con una visione globale, internazionale.
«Mi aspetto anche che il pubblico riesca a cogliere l’universalità della storia: i personaggi sono parte di noi. Ognuno di noi ha una parte nascosta, una parte che vuole addomesticare. Ognuno di noi ha un’ombra che ha cercato o cercherà di reprimere, sopprimere: arriva un momento in cui deve fare i conti con questa parte. Mi piacerebbe anche che il pubblico riesca a cogliere il filo di ironia che c’è nella storia, un filo a cui teniamo tanto: a un certo punto ci è piaciuta questa nota un po’ ironica, perché l’ironia fa parte della vita. Non prendersi mai toppo sul serio fino in fondo, fare qualcosa di vero, qualcosa in cui credi, aggiungendo sempre quel tocco di leggerezza e di ironia, aiuta tutti a vivere meglio».
SE NETFLIX CREA CULTURA
Prima c’è stata la scrittura, in prosa e in poesia. Quasi contemporaneamente è nata la recitazione, per dare voce e corpo alla narrazione. Negli ultimi decenni il cinema è diventato il luogo per eccellenza delle proposte culturali: era completo, permetteva di unificare scrittura, musica, immagine, recitazione. Oggi sono fermamente convinta che la nuova cultura si trovi nelle serie.
Le serie, ovviamente non tutte, ma davvero tante, sono molto più libere, aperte, capaci di affrontare le grandi tematiche sociali che rimangono ancora fuori da altri media. Parlo di razzismo di ogni genere, di omofobia, di despotismo e autoritarismo. Ciò che è visto ancora, nella nostra società, come “diverso”, in Netflix è trattato in modo del tutto normale. C’è anche in Curon?
«Penso come te che Netflix sia la piattaforma più inclusiva e più socialmente attiva da questo punto di vista. Nella narrazione di Netflix c’è sempre un’attenzione – che ormai è organica, è naturale – congenita, nel Dna. La storia nasce già con questi elementi e con questa cura, non c’è neanche bisogno di sforzi suggestivi. È qualcosa di naturale, in tutto il processo creativo».
Naturale, appunto. Ogni serie Netflix, dalle più leggere alle più impegnate, racconta la realtà, senza togliere quello che da molti viene ancora ritenuto politicamente non corretto. Non è osare: è semplicemente raccontare le cose come stanno. La cosa più difficile da fare, in un mondo globale in cui la post-verità e l’apparenza si sono mangiate tutto.
I PERSONAGGI DI CURON
Ciascuna serie attrae e colpisce per i suoi personaggi. Proprio come nei romanzi, sono i personaggi a intrigare. Ma nelle serie succede una cosa strana, ancora più che nella narrativa: quando finiscono mancano i personaggi che ci sono piaciuti di più, sia per come sono stati costruiti che per come sono stati interpretati. In Curon il campanile da solo attrae tutto o ci sono personaggi che attireranno particolarmente, facendo nascere serial addicted?
«Il campanile inteso come luogo, oltre che come campanile, è protagonista tanto quanto i personaggi. È importante quanto Anna, Daria, Mauro e tutti quanti: ti trascina, vuoi conoscerlo sempre di più, da lui pendi, puoi distaccartene ma vuoi continuare ad essere legato come tutti i personaggi addicting delle serie. Tra i personaggi in carne e ossa non saprei dirti quale “andrà” di più: credo che ciascuno tenderà a legarsi all’uno o all’altro, ma essendo poi il racconto di una piccola comunità, quando l’ho riguardato da pubblico, ho avuto la sensazione che ci si lega al gruppo. È un ensemble di personaggi e di attori cui mi sono legato come gruppo».
Mi viene in mente Twin Peaks, l’antesignano per eccellenza. E Dark, o Stranger Things. «Sono reference altissimi. Ci si lega al gruppo, ma anche a qualcuno in particolare. Io ho la mia preferita, tu avrai la tua. Sono curioso».
GLI ATTORI
«Ci sono molti ragazzi che debuttano in Curon, un po’ come Miriam ha debuttato in Il Sud è niente: ho fatto un lungo progetto di casting, dopo di che ci siamo chiusi in una palestra per fare training, lavorare sui personaggi, proprio come ho fatto con Miriam. Ho lavorato andando in profondità sui personaggi, anche se stavamo facendo una scena action, o con effetti speciali, o di intrattenimento puro. Mi piace lavorare in quel modo: ho usato la stessa modalità di lavoro. Ovviamente le direzioni prese sono diverse: una cosa è fare un film destinato ad un circuito di festival, una cosa è una serie di intrattenimento che va su una piattaforma così vasta. E mi piace sottolineare che sono attori bilingui, hanno recitato in italiano e tedesco. Siamo riusciti a creare un cast incredibile».
I PRIMI 40 ANNI DI FABIO MOLLO
Un attivo di 5 corti, 5 documentari, due film per il cinema e uno per la tv, 3 serie tv. Grandi nomination per Il sud è niente (2013) con Miriam Karlkvist (premiata al 64º Festival di Berlino con lo Shooting Star Award), Vinicio Marchioni e Valentina Lodovini. Nel 2016 il documentario The Young Pope – A Tale of Filmmaking, che ripercorre il dietro le quinte della serie di Paolo Sorrentino. Nel 2017 Il padre d’Italia, con Luca Marinelli e Isabella Ragonese, 4 candidature ai Nastri d’Argento, Globo d’Oro a Isabella Ragonese come miglior attrice, Premio della Giuria e Premio Giuria Giovane al Festival du Film Italien de Villerupt 2017, tanto per citare alcuni riconoscimenti. Il 2018 è molto intenso: firma la regia per Canale 5 di Liberi sognatori – Una donna contro tutti sulla storia di Renata Fonte, Cristiana Capotondi, è uno dei registi della terza stagione della serie di Rai 1 Tutto Può Succedere, inizia la collaborazione con Virginia Raffaele, alla regia di Come Quando Fuori Piove. Tanta, tantissima roba.
Eppure si parla ancora di lui come di “una giovane promessa”. In realtà è un regista e uno sceneggiatore conosciuto e affermato, capace di transitare tra generi e lavori molto diversi tra loro. Come saranno i prossimi 40 anni? C’è un ambiente, un ambito preferito tra cinema, tv, piattaforme on demand?
«Mi sono posto questa domanda proprio allo scadere dei miei primi 40 anni. Sto vivendo il lavoro su Curon e la sua uscita come ho vissuto Il sud è niente. I budget sono diversi, le piattaforme pure, eppure ho vissuto lo stesso procedimento creativo, anche se Il sud è niente era molto più intimista.
Credo che sia il motivo per cui vengo percepito come la giovane promessa o il giovane debuttante: ho sempre quell’entusiasmo, quella voglia di dare il meglio di me, di crescere e imparare e di spendermi fino in fondo per qualsiasi cosa faccia: sia il piccolo film indipendente a zero budget, sia la grossa serie Netflix. Ho deciso che anche per i prossimi 40 anni manterrò questo entusiasmo e questo essere un po’ naif, buttarmi nelle cose al 100% senza pensare a quelli che possono essere i risvolti».
JUDY GARLAND NEL MONDO DI OZ
Continuerà a fare un po’ di tutto, Fabio Mollo.
«A me piace. Adoro i registi che cambiano, che non fanno lo stesso film dieci volte, che non collaudano un trade mark e lo rifanno all’infinito. Quando ero studente di cinema tra i registi degli anni ’90 che mi avevano colpito di più c’era Michael Winterbottom, che passava dal film con star come Angelina Jolie al documentario, a film come Benvenuti a Sarajevo, girato durante la guerra in Bosnia, al lavoro in costume di Jude, o al film sperimentale in digitale Wonderland, girato a Soho. A me piacciono quei registi che hanno curiosità e voglia di cambiare sempre. L’importante è mantenere l’approccio giusto con ciò che mi piace: stessa voglia di raccontare al massimo, stessa voglia di incuriosire, stessa curiosità nell’esplorare l’essere umano e l’amore per il cinema, e dunque per i diversi generi. Se ami il cinema come lo amo io, fare un genere solo può essere riduttivo: è come vivere una vita sola. Invece la cosa bella del cinema è che ti permette di vivere tante vite. Quindi perché vivere sempre la stessa? Musical, documentario, horror, thriller, sentimentale… perché rinunciare a qualcosa?
«La sfida mi mantiene questo faccino da ragazzino. Sarà quel mio modo di fare un po’ da Judy Garland nel mondo di Oz. In attesa che la mia casa venga travolta dal tornado per atterrare chissà dove».
IL MODELLO CURON
Fabio Mollo ha la Calabria tatuata dentro, oltre che sul piede. E ogni volta che abbiamo parlato nella punta dello Stivale italiano ne abbiamo sempre parlato come di una ferita mai del tutto cicatrizzata. La Calabria sta cercando di muoversi dal punto di vista cinematografico: la Film Commission è molto attiva, ha finanziato diversi film e serie – l’ultimo uscito è Aspromonte di Mimmo Calopresti. Ma manca un modello Curon. Manca una storia staccata dal contesto storico narrativo con cui è stata sempre raccontata: non è solo terra di ‘ndrangheta, è anche una terra con ricchezze paesaggistiche che andrebbero raccontate con uno storytelling diverso, fuori contesto, trasformando uno dei tanti luoghi affascinante ma non troppo conosciuti in qualcosa capace di attrarre nuovo turismo. Hai in mente qualcosa?
«I miei tentativi li ho fatti. Continuerò a farli. Ma purtroppo nemo propheta in patria. Tanti registi sono stati chiamati in Calabria, io non ho mai avuto questa opportunità. Ho provato a mettere in piedi in Calabria tanti progetti: festival, laboratori, cinema, ma purtroppo non hanno mai attecchito. Non smetterò mai di provarci. Da solo è molto difficile: la mia carriera è in pieno movimento, sto lavorando a tanti progetti che mi stimolano. La Calabria non è più una ferita, come lo è stata per molto tempo, ma una cicatrice, come dici tu.
«Ho apprezzato tanti lavori, da Anime Nere ai film di Jonas Carpignano, le serie come il Miracolo e Zero zero zero: la Calabria ha avuto bellissimi progetti, grazie al lavoro della Film Commission e dei network. Negli ultimi dieci anni la Calabria ha attraversato un periodo molto bello, che ha permesso la nascita di nuove leve di attori e di maestranze, attivando un settore che era fermissimo. Mi auguro che ci possa essere spazio anche per altri tipi di progetti, fuori dalla narrazione di ‘ndrangheta».
Grandi realtà come Netflix – il più grande servizio di intrattenimento in streaming del mondo, con 183 milioni di abbonati paganti in oltre 190 Paesi, potrebbero fare la differenza. Sarebbe imortante lavorare su un modello Curon con un marketing territoriale molto evidente e chiaro, un feedback sicuro.
«C’è stata una prima fase: attirare l’attenzione. Ora possiamo passare alla Fase 2 anche nel settore cinematografico. Dimostrare che è bello girare in Calabria. Spero ci possa essere una progettazione, anche se in Calabria sembra davvero difficile progettare».
I NUOVI LAVORI
Fabio Mollo, invece, di progetti ne ha tanti. Che stanno per uscire.
«Intanto Masantonio, serie che ho girato lo scorso anno con Alessandro Preziosi come protagonista, prodotto da Cattleya per Mediaset. Si tratta di un procedural drama molto particolare ed ambizioso, una scrittura che mi ha conquistato. È ambientato a Genova, l’ho girato prima di Curon, sto finendo la costruzione ora, uscirà dopo l’estate.
«Poi c’è questo film, Shadows, che ho scritto e seguito per cinque anni. Inizialmente dovevo fare anche io la regia, che ho ceduto con grande piacere a Carlo Lavagna, è il suo secondo film. È il mio primo film in inglese, ambientato in Islanda, prima coproduzione internazionale che ho sviluppato in questi ultimi anni, soprattutto l’ultimo anno e mezzo tra Italia e Irlanda. Prodotto da Ascent Groenlandia, Matteo Rovere e Andrea Paris, con una produzione irlandese, girato in inglese. Nel cast la protagonista è Mia Threapleton, la figlia di Kate Winslet, ragazzina pazzesca praticamente al suo debutto. Con lei Lola Petticrew e Saskia Reeves».