Qual è stato l’impatto della pandemia sul tasso di occupazione in Italia? Chi ne è uscito più svantaggiato? La risposta è tristemente ovvia: le donne. La notizia non sorprende più. La questione che vede le donne come segmento sociale tra i più svantaggiati del nostro Paese, è ormai diventato un mantra. Ce lo conferma il Rapporto Svimez 2021 che ci illumina sullo stato attuale dell’occupazione femminile in Italia e al Sud.
-5% occupazione femminile al Sud
Nel nostro paese, nel biennio tra il secondo trimestre 2019 e quello del 2021, l’occupazione femminile si è ridotta di 370 mila unità, ovvero -3,7%, mentre quella maschile di 308 mila unità (-2,3%). Ma il calo è stato più accentuato nel Mezzogiorno, dove si è ridotta del 5% a fronte del -3,3% del Centro-Nord.
Com’è noto, il Covid-19 ha avuto importanti conseguenze sull’organizzazione della vita familiare e sul lavoro non retribuito. Le donne hanno subito perdite di lavoro e di reddito relativamente più ampie, a causa del peso maggiore delle occupate nei settori più colpiti dalle misure di contenimento. Una relativa tenuta si è registrata esclusivamente per le donne in possesso di titolo di studio terziario, a conferma dell’importanza del titolo di studio per la partecipazione al lavoro delle donne meridionali.
Il dato più allarmante che si legge nel Rapporto Svimez è che l’emergenza sanitaria ha cancellato in un anno oltre il 40% dell’occupazione femminile creata tra il 2008 e il 2019 riportando il tasso d’occupazione delle donne a poco meno di due punti sopra i livelli del 2008.
Regioni del Sud tra le cinque peggiori in Europa
Ma non finisce qui. Di fatto, con la pandemia il tasso di occupazione è calato in tutta l’Europa. Tuttavia, in Italia è calato più della media, soprattutto per le donne. Se prendiamo i dati Eurostat elaborati nel 2020, notiamo come dopo la pandemia il Mezzogiorno disti oltre trenta punti dalla media Ue.
In media il tasso di occupazione femminile italiano è di 13,5 punti sotto la media dell’Unione Europea. Nel complesso, con il suo 58,1%, l’Italia è il paese con il più basso tasso in Europa. A causa dei forti divari territoriali, il nostro paese comprende quattro regioni tra le cinque peggiori in Europa: Campania, Sicilia, Puglia e Calabria. A fargli compagnia Mayotte, una piccola regione d’oltremare francese. Magra consolazione: la Grecia ci supera con un tasso di disoccupazione femminile del 47,5%.
Quindi l’Italia è tra i paesi con il più basso tasso di occupazione femminile, ma non è l’ultima. La situazione si complica però guardando alle singole regioni, proprio per i forti divari territoriali che caratterizzano il nostro paese. In tutte le regioni del Mezzogiorno si registra un’ampia disparità di genere a livello occupazionale, con divari superiori ai 20 punti percentuali. Il record lo batte la Puglia con il 27% di differenza tra occupazione maschile (59,7%) e femminile (32,8%). Al lato opposto le regioni del Centro e del Nord, prima la Valle d’Aosta.
La parità di genere si classifica tra le priorità trasversali del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, che punta su una maggiore partecipazione nel mercato del lavoro. Per perseguire questo obiettivo, il testo si avvale di misure specifiche per potenziare l’imprenditorialità femminile ma non tiene in considerazione gli aspetti che dovrebbero contribuire al suo raggiungimento. L’esempio principale sono i servizi di assistenza all’infanzia e le politiche di conciliazione vita-lavoro, dei meccanismi che garantiscano un effettivo riequilibrio territoriale dell’offerta.
Secondo quanto riporta Svimez, in Italia occorrerebbe creare 288 mila posti in asili e colmare il rapporto tra posti disponibili negli asili nido e il numero di bambini di età compresa tra 0 e 3 anni. Un rapporto che si colloca in media al 25,5%, al di sotto dell’obiettivo definito dall’Unione Europea ovvero il 33%.
S.O.S. asili nido: i dati del Rapporto nazionale
Le distanze tra i territori nella diffusione di asili nido e servizi per l’infanzia sono sintetizzate nel Rapporto nazionale ‘Asili nido in Italia’, promosso da Con i Bambini e Openpolis nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile.
I divari Nord-Sud sono netti e imbarazzanti. Mentre il centro-Nord ha praticamente raggiunto l’obiettivo europeo (32%) e dove 2 comuni su 3 offrono tali servizi, al Sud ci sono 13,5 posti ogni 100 bambini e il servizio è garantito solo nel 47,6% dei comuni.
La situazione è tale per cui a Bolzano ci sono quasi 7 posti ogni 10 bambini a fronte di 5 posti a Catania e Crotone per 100 bambini. In cima troviamo ancora la Valle d’Aosta con 1 posto ogni 2 bambini residenti. Seguono Umbria, Emilia-Romagna e Toscana.
Al Sud, tutte le otto province meridionali non raggiungono un posto ogni 10 bambini residenti: Trapani (9,7%), Napoli (8,9%), Ragusa (8,7%), Catania (8,1%), Palermo (8%), Cosenza (7,7%), Caserta (6,6%), Caltanissetta (6,2%). Ma le medie regionali comprendono divari all’interno degli stessi territori. In Sicilia, l’offerta potenziale presente nella città metropolitana di Messina è quasi tre volte quella della provincia di Caltanissetta (6,2%). In Calabria il dato di Crotone (16,3%) è più del doppio di Cosenza (7,7%). In Campania, l’offerta potenziale di Salerno (13 posti ogni 100 bambini) è quasi doppia rispetto a Caserta (6,6%).
Le misure del PNRR
Il Piano italiano di ripresa e resilienza dedica un impegno di oltre 28 miliardi di euro per Istruzione e ricerca mettendo al centro la necessità di “aumentare l’offerta di asili nido” per raggiungere la media europea del 33% entro il 2026. Recentemente anche la ministra per le Pari Opportunità e la Famiglia, Elena Bonetti, ha dichiarato che i posti negli asili nido raddoppieranno per effetto del PNRR. Infatti, il “piano asili nido” rappresenta uno degli interventi più importanti contenuti all’interno del PNRR: con 4,6 miliardi previsti è il settimo investimento in termini di importo stanziato.
Come riferisce Repubblica, tale affermazione sarebbe corretta se applicata esclusivamente al settore pubblico. In tal caso, infatti, la copertura degli asili nido aumenterebbe meno rapidamente e passerebbe dall’attuale 26,9% a quasi 40%. Un altro punto debole della misura prevista dal PNRR è che fissa un obiettivo totale di costruzione di scuole dell’infanzia e posti per asili nido senza distinguere gli obiettivi tra le componenti pubbliche e private.
Dulcis in fundo, il Piano non prevede differenziazioni regionali come condizioni da rispettare per accedere ai fondi. Questo significa che non è possibile distinguere le disuguaglianze dell’offerta dei servizi educativi tra le varie regioni italiane. Di conseguenza, è possibile che vengano potenziate solamente le aree del paese che già dispongono di tali infrastrutture.
Per questo occorre una maggiore precisione a livello territoriale nella definizione degli obiettivi specifici per gli asili nido, in questo modo anche gli enti locali con limitate esperienze tecniche potrebbero partecipare al meglio alla creazione di una copertura tale da poter abbattere le distanze esistenti. Se ciò non accade, le risorse europee non saranno servite a molto.
Oltre a ridurre le rilevanti difformità territoriali che vedono minimi del 6% in alcune zone del Sud e percentuali di copertura ben più alte al Nord, secondo la Svimez, per completare lo sforzo saranno necessari congedi parentali meglio distribuiti e un sistema fiscale che non penalizzi il lavoro del “secondo” lavoratore in famiglia.
Congedi di paternità: Italia fanalino di coda Ue
Anche in materia di congedi di paternità l’Italia si classifica come fanalino di coda in Europa. Qui da noi il congedo di maternità dura 5 mesi, in linea con la media europea, cioè circa 4 mesi e mezzo. Invece, il congedo di paternità è stato introdotto nel 2012, sotto la spinta della Direttiva Europea 2010/18/UE.
Inizialmente era stato previsto un congedo di solo un giorno, ma negli anni è stato progressivamente allungato, fino a 10 giorni, durata resa strutturale a partire dal 2022 dalla Legge di Bilancio. Lo Stato, per rendere strutturale la misura del congedo di paternità, ha stanziato circa 400 milioni. Tra le anticipazioni sulla manovra contenuta nel Documento programmatico di bilancio, inviato alla Commissione Europea, vi è la possibilità che il congedo di paternità si estenda a tre mesi grazie al Family Act.
Chissà che non sia l’occasione buona per l’Italia di fare un passo avanti in materia di welfare e diritti civili.