In Italia la parità di genere è un traguardo ancora lontano e la rappresentatività femminile in politica non fa eccezione: l’obiettivo quote rosa nelle elezioni amministrative 2021 è stato un buco nell’acqua. Lo riferisce un rapporto redatto dal Centro Studi Enti Locali (Csel), per AdnKronos, secondo cui il 50% dei comuni con meno di 5000 abitanti non è riuscito a centrare l’obiettivo della rappresentanza femminile nelle amministrazioni comunali.
Il dibattito pubblico sulla presenza delle donne in politica è spesso concentrato esclusivamente a livello nazionale su quante donne ricoprono ruoli apicali nelle istituzioni, in parlamento o al governo. Ma il tema della composizione degli organi amministrativi dei comuni è tutt’altro che secondario. Gli enti comunali, infatti, costituiscono il primo livello di rappresentanza politica istituzionale. E siccome il potere amministrativo cresce all’aumentare del territorio, della sua popolazione e dei servizi da esso offerti, più il territorio da amministrare è grande, più le politiche e gli investimenti possono avere un impatto a livello nazionale. Occorre quindi analizzare la composizione delle amministrazioni comunali adottando una prospettiva di genere, per capire se vi è effettivamente parità tra uomini e donne.
Quadro normativo
Nell’ordinamento giuridico italiano sono due le leggi che tutelano l’equa rappresentanza di genere nei consigli comunali con rispettivamente più di 5mila e 3mila abitanti. La prima è la Legge 215/2012, il cui articolo 2 sancisce il principio generale secondo cui “nelle liste dei candidati è assicurata la rappresentanza di entrambi i sessi”. La norma, oltre a prevedere che nelle liste nessuno dei due sessi possa essere rappresentato in misura superiore ai due terzi, sancisce la possibilità di esprimere una doppia preferenza di genere – vale a dire due candidati di sesso diverso – , pena l’invalidità del voto. La seconda è la Legge Delrio del 2014 che stabilisce una quota minima del 40% di candidati di entrambi i sessi nelle liste elettorali. Tuttavia, sorge un problema: in questi comuni tali obblighi sembrerebbero esclusivamente formali perché non sono previste misure correttive e/o sanzionatorie per le liste che non assicurino almeno un terzo di donne tra i candidati.
32,87% le donne schierate nelle liste comunali
Il tema della rappresentanza di genere nei comuni di piccole dimensioni non è trascurabile: le piccole amministrazioni comunali sono 755 e rappresentano il 70% dei comuni italiani. Di questi enti chiamati alle urne il 3 e 4 ottobre, secondo il Csel, solo 384 hanno presentato almeno 1/3 di candidati donna. Uno su due, esattamente come l’anno scorso. Nell’80% dei casi, ovvero in 79 comuni, i candidati uomini sono stati più di quelli di sesso femminile. Complessivamente le donne schierate nelle liste prese in esame sono 4.955 su 10.099 (il 32,87%), dato in leggero miglioramento rispetto al 2020 (31,8%). Rispetto alla scorsa tornata elettorale, infatti, quest’anno sono stati 39 i comuni in cui le donne candidate hanno superato gli uomini.
Non è un paese per sindache: il Mezzogiorno è sotto la media nazionale
Rispetto alla corsa per la fascia tricolore ciò che emerge dallo studio è che in Italia fare il sindaco non è un mestiere per donne: nel 2021 le candidate del “gentil sesso” a contendersi la carica di prima cittadina sono state solo 255 su 1.539 candidati, circa il 16% del totale. È andata meglio tra le candidature ai consigli comunali dove le donne sono state il 41,7% (26.011 su 62.294).
Ma come stavano le cose prima delle elezioni di ottobre? Secondo i dati riportati da Open Polis, la quota di sindache nei comuni italiani era del 14,86%. Se analizziamo la distribuzione geografica, il Mezzogiorno si colloca, con il 9,09%, sotto la media nazionale per numero di amministrazioni comunali guidate da una donna. Benevento, Catania e Trapani registrano la situazione peggiore di Italia: neanche una sindaca al vertice di un’amministrazione comunale. Il Centro e il Nord non fanno tanto meglio ma raggiungono rispettivamente il 15,5% e il 17.
La situazione nei capoluoghi
La situazione non migliora nelle grandi città. Solo a Roma e Torino c’è stata una donna al vertice dell’amministrazione comunale. Dato interessante: in entrambi i casi si tratta di sindache provenienti dal Movimento 5 Stelle. Mentre Virginia Raggi si è riproposta alle elezioni della Capitale per un secondo mandato, la pentastellata torinese, Chiara Appendino, ha rinunciato alla candidatura. Al suo posto si è schierata un’altra donna, Valentina Sganga, già consigliera comunale della città.
Ma guardiamo agli altri capoluoghi di Regione che sono andati al voto. Tralasciando la soglia per le quote rosa nelle liste politiche imposta dalla Legge del 2012, su 162 candidati sindaco solo 30 erano donne. Il partito ad aver candidato più donne è stato il M5s, alle cui candidate di Roma e Torino si è aggiunta, a Cosenza, Bianca Rende e a Salerno Elisabetta Barone. E nel resto del Sud Italia? A Napoli la vice sindaca uscente ed ex assessora dell’amministrazione De Magistris, Alessandra Clemente, ha raccolto solo il 5,58% dei consensi, subendo la schiacciante vittoria di Gaetano Manfredi.
Neanche la Sicilia si rivela una regione per donne. Il quadro delle elezioni tenutesi il 10 e 11 ottobre ne è la riprova: su 134 candidati a sindaco, solo 19 sarebbero state donne. Circa il 14% contro 115 uomini. In alcune province la partita si è giocata alla pari. Nel siracusano, trapanese, agrigentino e in provincia di Messina il numero di candidate ha raggiunto al massimo le tre unità.
Ai ballottaggi nessuna donna nei dieci capoluoghi di provincia al voto
La carenza di candidate sindaco si riflette anche nelle sfide ai ballottaggi dei 65 comuni che sono andati al voto il 17 e 18 ottobre. I dati del Ministero dell’Interno confermano uno scenario piuttosto desolante: su 20 candidati sindaco, nei dieci capoluoghi di provincia al voto, non c’è nessuna donna. L’unico confronto tra due donne è stato a San Mauro Torinese, città metropolitana di Torino. Se guardiamo a tutti i 76 comuni al ballottaggio – compresi quelli in Sicilia, Sardegna e Trentino-Alto Adige che andranno al voto il 24 e 25 ottobre – gli uomini rimangono in ampia maggioranza (132 candidati su 152). Tra tutte le regioni, la Sicilia è quella messa peggio con otto comuni al ballottaggio e nessuna candidata tra i 22 in corsa.
In Calabria raddoppia la presenza femminile in Consiglio Regionale
Passabile la Calabria dove, a Siderno, lo scontro è avvenuto tra Maria Teresa Fragomeni, candidata del centro sinistra e Domenico Barranca, del centro destra. I cittadini hanno premiato, con il 64,37% di preferenze, la candidata del Pd che è così diventata la prima sindaca donna della città più popolosa della Locride.
La Calabria ha registrato un altro notevole miglioramento in termini di rappresentanza femminile in politica: il 2021 è stato il primo anno in cui nella regione si è potuto votare esprimendo una doppia preferenza di genere. Fino all’anno scorso la regione era rimasta tra le poche a non disporre ancora della doppia preferenza di genere. Dopo l’elezioni regionali di quest’anno la storia è cambiata e la presenza di donne a palazzo Campanella è raddoppiata: nel Consiglio Regionale della Calabria siederanno sei consigliere, il doppio rispetto all’anno precedente – nel 2020 il Consiglio registrava un’irrisoria presenza femminile con la presidente Jole Santelli e le consigliere Minasi e Sculco.
Il fatto che il numero di donne che in questa legislatura siederanno nel Consiglio Regionale è più che raddoppiato è sintomo di un innegabile miglioramento. Tuttavia, bisogna tenere a mente che il numero 6/30 rimane sostanzialmente basso.
Parità o equità?
È pur vero che la legge italiana non impone alcuna regola per la parità di genere nelle candidature a sindaco – come abbiamo visto le uniche leggi sulle quote rosa riguardano le liste elettorali a sostegno dei candidati. Tuttavia, in un paese che si definisce civile e democratico, è giusto che si faccia ancora così fatica ad avere un’equa rappresentanza femminile in politica? La presenza femminile nei consigli comunali sarà anche aumentata grazie alla doppia preferenza. È abbastanza? Certo, la scelta dovrebbe essere basata sulle competenze piuttosto che sul genere del candidato, e non è detto che il miglior candidato sia per forza donna. Ancora una volta però il discorso verte sulle opportunità in partenza.
Se la parità prevista dalla legge non mette in atto strumenti redistributivi, non considera le situazioni reali e di partenza delle donne, se il problema rimane sistemico e culturale, come si fa a raggiungere la parità? Viviamo in un Paese e in una società in cui essere uguali significa avere gli stessi diritti. Sulla carta siamo tutti uguali. Bisognerebbe piuttosto considerare il concetto di equità, tenere conto delle differenze che sono alla base delle opportunità di ciascuno.
Insomma, di parità ne sentiamo spesso parlare ma nella pratica il dispositivo plurinominale non ha portato a grandi risultati, come dimostrano i dati. Sì, ci sono state più candidate nelle liste elettorali ma l’impressione è che la presenza femminile sia stata quasi “obbligata” e sia servita piuttosto come mezzo per presentarsi in maniera amichevole e politically correct. Un cliché, anche questo.