Immigrazione tra narrativa e realtà: Usa e Italia a confronto

La retorica anti-immigrati ha permesso a Trump di tornare alla Casa Bianca. Senza però considerare che l’economia Usa ha bisogno di talenti stranieri per crescere e mantenere la leadership tecnologica. Una situazione che si ripropone anche in Italia

tratto da un articolo di Mario Macis su LaVoce

L’immigrazione è stata un tema centrale nelle elezioni presidenziali Usa del 2024, con l’intreccio tra ingressi illegali dal confine con il Messico e arrivi legali. Si è così alimentata una narrativa polarizzante, che ha favorito la vittoria di Donald Trump. Ora con la nuova amministrazione appena entrata in carica, tra i sostenitori del presidente già si affacciano le divisioni: i leader tecnologici della Silicon Valley, come Elon Musk, sono favorevoli all’immigrazione altamente qualificata per motivi economici, mentre i nazionalisti a oltranza sono contrari per ragioni protezioniste. Anche in Italia, il dibattito sui rifugiati spesso oscura la questione dell’immigrazione regolare, complicando strategie di lungo periodo.

Gli americani e le politiche sull’immigrazione

Durante la campagna elettorale Usa del 2024, l’immigrazione è stata un tema centrale e divisivo.

Il flusso di immigrati irregolari è aumentato durante la presidenza Biden, toccando un picco di 370 mila intercettazioni alla frontiera (“border encounters”) a dicembre 2023, secondo il Pew Research Center. In seguito, si è avuto un calo significativo, accompagnato da un inasprimento delle misure con l’ordine esecutivo restrittivo emanato a giugno 2024. Ad agosto 2024 le intercettazioni alla frontiera erano così diminuite del 77 per cento rispetto al picco, ma il provvedimento del presidente è probabilmente arrivato troppo tardi per cambiare la percezione pubblica.

Un sondaggio Gallup dell’ottobre 2024 indicava che il 21 per cento degli americani considerava l’immigrazione il più urgente problema non economico (una classificazione curiosa, dato l’enorme impatto economico dell’immigrazione), mentre il 77 per cento giudicava la situazione al confine con il Messico come grave o di crisi. Il 76 per cento dei repubblicani e il 58 per cento dei democratici si diceva favorevole alla sospensione temporanea delle richieste di asilo in caso di forte pressione alle frontiere.

Sempre secondo Gallup, la maggioranza vorrebbe una riduzione dei flussi, con il 47 per cento favorevole alla deportazione di tutti gli immigrati irregolari: è un approccio appoggiato dall’84 per cento dei repubblicani, ma solo dal 22 per cento dei democratici.

Le divisioni emergono anche sulle politiche di asilo e sicurezza: i democratici tendono a favorire approcci più permissivi, mentre i repubblicani spingono per controlli più rigidi.

L’enfasi sul controllo delle frontiere, accentuata dalla campagna elettorale, ha alimentato timori e preoccupazioni nell’opinione pubblica, tanto che è cresciuta l’opposizione non solo all’immigrazione irregolare, ma anche a quella legale. Non è un problema da poco per l’economia statunitense, che dipende dagli immigrati per la crescita della forza lavoro e l’innovazione, a loro volta fondamentali per la prosperità a lungo termine.

Trump ha incentrato la sua campagna elettorale su misure restrittive come deportazioni di massa, limitazioni per rifugiati e richiedenti asilo e riduzione dei visti per i lavoratori regolari. Queste proposte hanno trovato forte sostegno nelle aree rurali e tra i lavoratori meno qualificati, preoccupati per la competizione nel mercato del lavoro. La candidata democratica Kamala Harris, invece, aveva proposto riforme più moderate, rafforzando le restrizioni sull’asilo e la sicurezza alle frontiere, ma promuovendo percorsi legali per la cittadinanza. Evidentemente, la sua posizione non ha mobilitato l’elettorato quanto la retorica aggressiva di Trump.

l’immigrazione fa bene o male all’economia?

Nel corso della campagna elettorale Usa, il dibattito così polarizzato ha oscurato il ruolo cruciale degli immigrati nell’economia.

Gli immigrati, pur rappresentando solo il 16 per cento degli inventori, hanno contribuito per quasi il 25% all’output innovativo tra il 1990 e il 2016, e circa la metà delle aziende Fortune 500 è stata fondata da immigrati o dai loro figli. Uno studio di Giovanni Peri e Alessandro Caiumi mostra che tra il 2000 e il 2019 l’immigrazione ha aumentato i salari dei lavoratori statunitensi con bassa istruzione dell’1,7-2,6 per cento, senza effetti negativi sui salari dei laureati. Il risultato è dovuto alla complementarità tra le competenze degli immigrati, spesso con elevata formazione universitaria, e quelle dei lavoratori nativi, che ha favorito la specializzazione e la produttività.

La ricerca evidenzia anche un impatto positivo sull’occupazione dei lavoratori nativi, smentendo l’idea che l’immigrazione danneggi il mercato del lavoro.

Nel lungo periodo, gli immigrati contribuiscono più in tasse federali di quanto ricevano in benefici, rafforzando le finanze pubbliche. Tuttavia, esiste un disallineamento tra chi sopporta i costi a breve termine (stati e comunità locali) e chi ne beneficia a lungo termine (governo federale): nascono da qui le resistenze allimmigrazione. Ai costi economici si aggiungono poi i costi sociali che derivano da cambi repentini nella composizione delle popolazioni locali che ricevono gli immigrati. Per affrontare questa sfida, Zeke Hernandez (Wharton, University of Pennsylvania) propone trasferimenti federali a stati e contee per coprire i costi iniziali e rendere le comunità più favorevoli all’accoglienza.

Il dibattito sull’immigrazione qualificata

In campagna elettorale, Trump ha evitato di affrontare direttamente il tema dell’immigrazione qualificata. Dopo la vittoria, però, alcune tensioni latenti sono esplose.

Le prime crepe si sono viste a dicembre 2024, proprio su X, controllata da Elon Musk. I leader tecnologici della Silicon Valley sono alla ricerca di talenti internazionali e si sono scontrati con la base nazionalista di Trump, che li vede comunque come una minaccia ai lavoratori americani. Il personale altamente specializzato con un elevato livello d’istruzione entra negli Usa con il visto H-1B, il cui tetto annuale è fermo a 85mila dal 2006, contro le 470mila domande nell’ultimo anno fiscale, segno di una domanda ben superiore all’offerta.

Alcuni politici repubblicani, come Nikki Haley, sostengono che gli Stati Uniti dovrebbero investire nel sistema educativo invece di fare affidamento su lavoratori stranieri. I sostenitori Maga si oppongono infatti a qualsiasi espansione dell’immigrazione, e mettono così in luce il difficile equilibrio tra le esigenze del settore tecnologico e le pressioni politiche per ridurre i flussi migratori.

immigrazione, le somiglianze con il dibattito in Italia

Il dibattito sull’immigrazione negli Stati Uniti ha molte somiglianze con quello italiano (ed europeo in generale), dove il controllo delle frontiere e l’integrazione degli immigrati sono temi che dividono e polarizzano l’opinione pubblica. D’altra parte, proprio la vittoria di Trump ha confermato quanto il tema sia cruciale nel determinare i risultati delle elezioni.

In Italia, l’attenzione si concentra spesso sulla sicurezza e sugli effetti economici immediati, trascurando i benefici di lungo periodo di un’immigrazione ben gestita. Come negli Stati Uniti, l’enfasi sulle emergenze migratorie tende a oscurare la necessità di riforme che bilancino la sicurezza delle frontiere e la crescita economica. Inoltre, il disagio derivante dalla percezione che gli ingressi siano fuori controllo alimenta ulteriore resistenza alle politiche migratorie, indipendentemente dai dati effettivi sui flussi.

Distinguere il controllo dei rifugiati e dell’immigrazione irregolare da quella regolare favorirebbe un dibattito più razionale e soluzioni più efficaci. In Italia, un’immigrazione regolare ben gestita potrebbe contrastare il calo demografico e il declino della forza lavoro.

Come negli Stati Uniti, anche nel nostro paese un problema chiave è la percezione di uno squilibrio tra chi affronta le sfide immediate dell’accoglienza e chi beneficia degli effetti economici a lungo termine. Però, al contrario di quanto accade negli Usa, da noi i costi diretti dell’accoglienza sono coperti da fondi pubblici nazionali, riducendo l’onere sulle comunità locali. Tuttavia, la percezione di costi a breve termine – compresi quelli non monetari, come l’impatto sociale di cambiamenti repentini nella composizione delle popolazioni locali – può alimentare resistenze. A facilitare un maggiore consenso su politiche migratorie sostenibili potrebbero allora contribuire politiche di supporto economico aggiuntivo.

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