Paradisi fiscali? I primi 4 sono in Europa

Monaco, Lussemburgo, Liechtenstein e Channel Islands sono i migliori paradisi fiscali: come vengono sottratti allo Stato 10 miliardi di euro l’anno

Ogni volta che si parla di paradisi fiscali, ci viene subito in mente qualche isola sperduta nei Caraibi. In realtà sono micro-Stati molto più vicini a noi di quanto pensiamo; i più importanti sono praticamente dietro l’angolo. Secondo uno studio recente del World Inequality Lab1, i primi cinque paradisi fiscali al mondo sono il Principato di Monaco, il Granducato del Lussemburgo, il Liechtenstein e le Channel Islands che sono situate nel canale della Manica. Solo al quinto posto troviamo le Bermuda, che sono l’unico paradiso fiscale non europeo di questa black list. Questi posti hanno pochissimi abitanti, ma vantano redditi pro capite che non hanno eguali nel resto del mondo. A segnalarlo è l’Ufficio studi della CGIIA.

montecarlo e lussemburgo, paradisi fiscali per 10 miliardi l’anno

Super-ricchi italiani e multinazionali che operano nel nostro Paese sono presenti soprattutto a Montecarlo e in Lussemburgo.
Siano essi persone fisiche o società, molti contribuenti italiani si sono trasferiti in particolare a Montecarlo e in Lussemburgo. Circa 8mila connazionali hanno deciso di trasferire la residenza nel Principato di Monaco per via delle tasse zero sul reddito e sugli immobili. Tra questi ci sono grandi imprenditori, sportivi e celebrità dello spettacolo.

In Lussemburgo possiamo trovare ben sei banche del nostro Paese, una cinquantina di fondi d’investimento, vari istituti assicurativi e molte multinazionali italiane e straniere che operano nel nostro territorio. Si stima che grazie ai super-ricchi con la residenza all’estero, alle manovre borderline delle multinazionali e dei grandi gruppi industriali che si rifugiano nei paradisi fiscali di tutto il mondo, ogni anno “sfuggono” all’erario italiano circa 10 miliardi di euro.

siamo tutti più poveri: colpa delle multinazionali?

Quando questi elusori fanno profitti miliardari senza pagare le tasse nel nostro Paese, non fanno altro che impoverirci. Le multinazionali, spiega lo studio della CGIIA, usufruiscono delle nostre infrastrutture materiali (porti, aeroporti, strade, ferrovie), ricorrono a quelle sociali (giustizia, sanità, scuola, università), sfruttano quelle immateriali (reti informatiche), senza però contribuire con le tasse come dovrebbero. Non solo. Spesso per insediarsi in Italia queste holding usufruiscono di agevolazioni/incentivi pubblici e quando sono in difficoltà e devono affrontare situazioni di riorganizzazione aziendale ricorrono a pienemani alle indennità erogate dall’Inps che, molto spesso, solo in minima parte sono state compensate dai contributi versati da questi giganti industriali.

Tutto ciò fa diminuire la base imponibile su cui si applicano le aliquote fiscali e conseguentemente anche il gettito che finisce nelle casse dell’erario. Risultato? Le disuguaglianze aumentano e la povertà cresce; gli altri contribuenti devono pagare di più per servizi spesso insoddisfacenti. Se invece tutti pagassero ciò che devono, lo Stato incasserebbe di più e la maggior parte dei cittadini pagherebbe meno: avremmo così maggiori risorse per aiutare chi è in difficoltà e potremmo ottenere una giustizia sociale migliore.

In Italia le big tech pagano poche tasse

Secondo l’Area Studi di Mediobanca, nel 2022 le società controllate dalle prime 25 multinazionali del web presenti in Italia hanno fatturato ben 9,3 miliardi, ma hanno pagato all’erario solo 206 milioni di euro di imposte. Purtroppo, non ci sono altre statistiche in grado di dimensionare il gettito fiscale versato dall’intero universo delle multinazionali presenti nel nostro Paese. L’unico dato aggiuntivo in grado di fotografare con una maggiore precisone queste realtà è di fonte Istat: il numero delle multinazionali estere presenti in Italia attraverso delle società controllate ammonta a 18.4348.

la Global minimum tax contro i paradisi fiscali

Per contrastare quei Paesi che applicano alle big company politiche fiscali compiacenti, dal 2024 è entrata in vigore la Global minimum tax (Gmt). Secondo il dossier curato dal Servizio Bilancio dello Stato della Camera, il gettito previsto dalla sola applicazione dell’aliquota del 15 per cento sulle multinazionali sarà molto contenuto. Si stima che nel 2025 il nostro erario incasserà 381,3 milioni di euro, nel 2026 427,9 nel 2027 raggiungerà i 432,5.

Nel 2033, ultimo anno in cui nel documento si stimano le entrate, le stesse dovrebbero sfiorare i 500 milioni di euro. L’anno scorso la Gmt ha interessato 19 paesi UE: Spagna e Polonia, invece, l’applicheranno da quest’anno, mentre Estonia, Lettonia, Lituania, e Malta hanno ottenuto una proroga sino al 2030.
Cipro e Portogallo, infine, sono chiamate a rispondere alla sollecitazione giunta da Bruxelles che ha recapitato loro una lettera di
messa in mora. Appare evidente che per le grandi holding presenti in UE rimane ancora la possibilità, almeno per i prossimi cinque/sei anni, di spostare parte degli utili in alcuni paesi membri dove la tassazione continua essere molto favorevole.

Quasi la metà del fatturato in Italia è prodotto dalle multinazionali

A fronte di oltre 17,6 milioni di addetti presenti nel nostro Paese, gli occupati nelle multinazionali (siano esse estere o italiane) sono 3,5 milioni, pari al 20 per cento del totale. A livello territoriale tale quota sul totale occupati regionali sale al 24,4 in Emilia Romagna, al 25,1 in Friuli Venezia Giulia, al 25,3 in Piemonte e al 27 per cento in Lombardia.
Se, invece, parliamo di fatturato, il dato annuo riferito all’intero sistema produttivo del nostro Paese è di 4.322 miliardi di euro, mentre la quota riconducibile alle big company è di 1.975 miliardi di euro. Ciò vuol dire che quasi la metà del fatturato prodotto dalle imprese private nel nostro Paese, per la precisone il 45,7 per cento, è ascrivibile alle nostre mltinazionali o a quelle estere che hanno delle società controllate che operano in Italia. Su base regionale, tale dato aumenta al 49,8 in Friuli
Venezia Giulia, al 51,8 per cento in Liguria, al 52,6 per cento in Lombardia e addirittura al 66,9 per cento nel Lazio.

    Quando un Paese è considerato un paradiso fiscale

    Le caratteristiche dei Paesi black list, da considerarsi come paradisi fiscali, sono state definite dall’OCSE già nel 1998, in occasione della pubblicazione del rapporto “Harmful Tax Competition – An Emerging Global Issue”, nei seguenti punti:

    • sostanziale mancanza di imposte sui redditi delle imprese costituite nei propri territori;
    • assenza, all’interno dei rispettivi ordinamenti giuridici, dell’obbligo per le società ivi costituite di svolgere un’affettiva attività d’impresa nei relativi territori;
    • poca trasparenza del sistema legislativo e amministrativo, che consente a determinati soggetti di beneficiare di privilegi in termini di ridotta tassazione dei redditi;
    • assenza di alcun meccanismo di scambio delle informazioni fiscali tra tali Paesi e gli altri Stati finalizzato a garantire la potestà impositiva di questi ultimi e a combattere i fenomeni di evasione ed elusione fiscale internazionale.
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