Referendum giustizia: cosa c’è da sapere

Il 12 giugno gli italiani sono chiamati a votare per cinque quesiti referendari abrogativi sulla giustizia. Dichiarati ammissibili dalla Corte costituzionale il 16 febbraio e indetti dal presidente della Repubblica per decreto il 6 aprile scorso, i testi sono stati promossi da nove consigli regionali della Lega e sostenuti anche dai Radicali.

Per l’approvazione è necessaria, ai sensi dell’art. 75 Cost., la partecipazione della maggioranza degli aventi diritto e si dovrà raggiungere la maggioranza dei voti validi.
I quesiti riguardano l’abrogazione del decreto Severino, l’eliminazione della custodia cautelare per alcuni reati, la separazione delle funzioni dei magistrati e due riforme di norme sulle attività del Consiglio superiore della magistratura. Gli ultimi tre quesiti sono anche oggetto delle riforme contenute nel pacchetto Cartabia, ancora al vaglio del Senato dopo l’approvazione da parte della Camera dei deputati.  

L’abrogazione del decreto Severino

Il primo quesito chiede l’eliminazione completa del Testo unico del 2012 in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, meglio noto come decreto Severino, dal nome del Ministro della giustizia durante il governo Monti. La norma vieta la candidatura e l’eleggibilità a qualsiasi carica pubblica per i condannati in via definitiva a più di due anni di carcere per alcuni reati (corruzione, concussione, collaborazione con la criminalità organizzata o organizzazioni terroristiche e per delitti non colposi con pene dai 4 anni anni in su).

Più severa la disciplina per gli amministratori locali, per cui si prevede incandidabilità, ineleggibilità e decadenza anche in caso di condanna definitiva superiore ai due anni per qualsiasi reato non colposo, e la sospensione per un massimo di 18 mesi da cariche regionali e locali anche in seguito a condanne non definitive. Per farla scattare basta una condanna in primo grado per i reati di associazione mafiosa, traffico di droga, peculato, concussione, corruzione, abuso d’ufficio e altri reati contro la pubblica amministrazione. Per gli altri reati non colposi la condanna deve essere confermata in appello e non dev’essere inferiore ai due anni di reclusione.

Con il quesito si chiede di eliminare il decreto e di rimettere alla discrezionalità dei giudici la decisione caso per caso. Per i promotori, il meccanismo previsto nella norma è inefficace e dannoso perché dispone la sospensione di amministratori locali anche nel caso di sentenze non definitive. Per contro, l’abrogazione dell’intero testo ammetterebbe che anche chi viene condannato in via definitiva potrebbe proseguire il mandato e ricandidarsi rimettendo ai magistrati la scelta di applicare o meno, in sede di condanna, la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici.

Limitare la custodia cautelare

Il secondo quesito dispone di limitare i casi di applicazione delle misure cautelari: si tratta di provvedimenti urgenti e temporanei che limitano, in maniera più o meno incisiva, la libertà di un indagato o di un imputato prima della sentenza definitiva. Esse si distinguono in coercitive – come la custodia in carcere, gli arresti domiciliari, il divieto di espatrio, il divieto di avvicinamento alla persona offesa – e interdittive, che impediscono al soggetto di esercitare ruoli e facoltà, come la potestà genitoriale o la sospensione da un pubblico ufficio o servizio. In quanto contrastanti con il principio della presunzione di innocenza, le misure cautelari sono emesse da un giudice su richiesta del pm in casi molto stringenti, cioè quando sussistono concreti indizi di colpevolezza e nel caso di una delle tre esigenze cautelari previste dall’articolo 274 del codice di procedura penale: il pericolo di fuga, di inquinamento delle prove o di reiterazione del reato (come delitti personali o legati alla criminalità organizzata). In particolare si chiede di eliminare la custodia preventiva per i reati punti con massimo 5 anni di carcerazione o 4 in caso di arresti domiciliari.

Il quesito intende abrogare l’ultima parte del sopracitato articolo 274, chiedendo di limitare i casi in cui può essere disposta la misura cautelare per rischio di reiterazione, motivazione usata di frequente, secondo i promotori del referendum, per trattenere gli indagati prima di una sentenza di condanna o di assoluzione. Per i contrari vi sono alcuni tipi di reati per cui il rischio di reiterazione è reale e frequente, come nel caso di truffa e stalking e la custodia cautelare in tali casi avrebbe un senso. Secondo i dati del Ministero della giustizia del 2021, solo l’1,6% delle misure emesse ha avuto come esito un’assoluzione definitiva, quindi non regge l’argomento dei fautori del sì per cui molti dei soggetti sottoposti a misure cautelari risulterebbero innocenti.

Il quesito per la separazione delle funzioni dei magistrati

Il terzo quesito riguarda la separazione delle funzioni di giudice e pubblico ministero ed è uno dei più contorti. Il passaggio tra i due ruoli è limitato, in base alla normativa vigente, ad un massimo di quattro volte con alcune regole, come l’impossibilità di svolgere entrambe le funzioni nello stesso distretto giudiziario. Il quesito non riguarda la separazione delle carriere, per cui sarebbe necessaria una modifica costituzionale – pm e giudici continuerebbero a essere reclutati con lo stesso concorso, a rispondere al medesimo Consiglio superiore della magistratura e a seguire la medesima scuola di formazione.
Il quesito vuole abrogare le disposizioni che sostengono il passaggio dalla funzione di pm, che rappresenta l’accusa nel processo, a quella giudicante, rappresentata dal giudice che emette la sentenza, e viceversa. Per i sostenitori del quesito, come gli organi di rappresentanza degli avvocati, le due funzioni dovrebbero essere nettamente separate in modo da garantire l’imparzialità dei giudici rispetto ad accusa e difesa e si dovrebbe scegliere quindi all’inizio della carriera quale ruolo voler ricoprire.

Tuttavia sul punto interviene anche la riforma Cartabia, che, se passasse, limiterebbe il numero di passaggi da quattro ad uno da esercitare entro i primi dieci anni di carriera. Inoltre il passaggio di ruoli ha una casistica estremamente limitata e nei fatti esiste già la separazione delle funzioni: dal 2006 al 2021 i pm passati a funzione giudicante sono stati 28 all’anno, viceversa i giudici passati a pm 19. Considerando che il numero medio di magistrati in servizio nel periodo è oltre 8.6mila, si tratta di percentuali irrisorie (tre e due su mille).
Per chi si oppone al quesito, il passaggio tra funzioni permette la cultura della giurisdizione dei magistrati dell’accusa, quindi la loro sensibilità rispetto alle ragioni degli accusati e con la separazione vi sarebbe il rischio di rendere i pm dei superpoliziotti, ciechi rispetto a diritti e garanzie.

Il quesito sulla valutazione dei magistrati

Il quarto vuole intervenire sulla valutazione dei magistrati ad opera della Corte di cassazione e dai Consigli giudiziari. Ogni quattro anni un consiglio disciplinare, composto da altri magistrati – giudici e pubblici ministeri -, da avvocati e professori universitari di materie giuridiche esprime una valutazione sull’operato dei magistrati, ma il voto finale spetta solo ai membri togati. Con il quesito si chiede di estendere a tutti i membri del consiglio disciplinare il potere di voto sulla valutazione dei magistrati. Per i contrari sarebbe inopportuno il giudizio degli avvocati su chi nel processo rappresenta la loro controparte.  La riforma Cartabia contiene una norma di delega – e non di diretta applicazione – che aprirebbe, se approvata, l’intervento nei consigli giudiziari solo agli avvocati.

Il quesito sulle firme per candidarsi al Csm

L’ultimo quesito riguarda l’abolizione dell’obbligo di raccolta firme per i magistrati che intendono candidarsi al Consiglio superiore della magistratura, l’organo di autogoverno dei 10mila magistrati italiani. Al Csm spetta il compito di governare la magistratura, valutando e gestendo le azioni di giudici e pubblici ministeri, ma anche quello di concorsi, avanzamenti in carriera, spostamenti e sanzioni disciplinari.

Il Csm è composto da 27 membri, di cui 3 di diritto e non eletti – il Presidente della Repubblica, primo presidente e il procuratore generale della Corte di cassazione – e gli altri eletti. Esclusi i tre membri di diritto, gli altri 25, eletti ogni quattro anni (che siano togati – magistrati votati dalla magistratura – o laici esperti di diritto e votati dal Parlamento) devono ottenere le firme di almeno 25 magistrati che svolgono un ruolo di supporto alla candidatura. Il quesito propone quindi di eliminare l’operazione di raccolta firme ripristinando la candidatura libera, in vigore fino al 1958. Secondo i proponenti in questo modo si eviterebbero voti politicizzati nel Csm, indebolendo il potere dei gruppi con orientamento politico, dopo la bufera sulle nomina al Csm che si è scatenata nella primavera del 2019.
Per i fautori del no tale operazione arginerebbe in maniera limitata tale fenomeno e ben più incisivo sarebbe l’art. 33 della riforma del Csm nel pacchetto Cartabia.

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