I giovani e l’informazione: tra fake news e pluralismo 3.0

In Italia i giovani tendono ad affidarsi quasi esclusivamente ad un’unica fonte informativa: la rete. Lo dice lo studio “L’informazione alla prova dei giovani”, pubblicato dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni – AGCOM.

La ricerca si concentra su tre fasce di età giovanili, caratterizzate da cicli di vita e percorsi differenti: i minori (14-17 anni), tutti ancora studenti che vivono con la famiglia di origine; i giovani in formazione (18-24 anni) che iniziano a differenziarsi per percorso formativo o occupazionale, anche se molto spesso continuano a vivere con i genitori; i giovani- adulti (25-34 anni), categoria composta da individui ormai adulti che tuttavia non dispongono di sufficienti mezzi economici per raggiungere la piena indipendenza.

In generale, lo studio racconta che i giovani italiani si informano almeno quanto, se non di più, dei loro coetanei europei. Nonostante ciò, ci sono due fattori da tenere in considerazione. Il primo è che in Italia è forte il divario digitale, specialmente tra il Nord e il Sud del paese, e questo condiziona i nostri giovani rispetto a quelli europei; il secondo, che i giovani italiani di tutte le età rappresentano il gruppo demografico che in assoluto si affida di più alla rete per informarsi, soprattutto tramite i social network.

Perchè i giovani si allontanano dall’informazione tradizionale?

Ma quali sono i motivi dietro questo distaccamento dei ragazzi che sempre di più si allontanano dall’informazione tradizionale?

Questo distacco è dovuto all’insoddisfazione delle nuove generazioni rispetto all’offerta informativa tradizionale. In sostanza, in Italia, le tematiche trattate dai mezzi di informazione tradizionali, gli stili comunicativi utilizzati e i punti di vista proposti, non corrispondono alle esigenze dei più giovani. I ragazzi non vengono stimolati, per cui non si sentono rappresentati dall’informazione più classica, sia per tipologia di contenuti che per stili di comunicazione. Infatti, i periodici, i quotidiani, i telegiornali non hanno subito in termini recenti significative innovazioni di prodotto. Ecco perché i giovani li ritengono obsoleti, meno attraenti e si riconoscono di più nei prodotti informativi della “nuova generazione”, ovvero in quelli legati alla rete.

Insomma, la popolazione giovanile che non si informa non lo fa per disinteresse. Al contrario, i giovani in Italia sono più informati rispetto agli altri paesi europei e prevale ancora la fruizione dei media tradizionali, come la televisione. Tuttavia, ai mezzi tradizionali preferiscono la rete come luogo in cui le loro curiosità informative vengono maggiormente soddisfatte.

Fonte: “L’informazione alla prova dei giovani”, AGCOM

Questa chiusura nel mondo di internet, unico mezzo in grado di dare voce alle esigenze dei ragazzi, comporta alcune problematiche. Una di queste è la frattura generazionale nell’accesso all’informazione. I giovani accedono meno all’informazione e consumano un diverso tipo di notizie rispetto alle generazioni più grandi. Questo avviene quasi sempre tramite i cellulari o tramite le testate online, e tal volta tramite gli influencer.

Fake news e pluralismo al tempo dei social

Un’altra criticità riguarda il così detto “pluralismo 3.0”, ovvero il pluralismo informativo al tempo di internet e dei social. Se da un lato la rete ci consente di attingere ad una molteplicità di fonti di informazione e punti di vista di versi, dall’altra tale pluralità si scontra con il fatto che la rete tenderebbe a chiudere i cittadini all’interno di ambienti popolati da informazioni manipolate, di bassa qualità o addirittura false. Parliamo delle così dette “fake news” che proliferano sulla rete accanto a fonti qualificate. Le fake news diffondono disinformazione a cui i minori, non avendo ancora sviluppato un pieno approccio critico, sembrerebbero essere più esposti, non sapendo riconoscere le notizie affidabili da quelle false.

Fonte: “L’informazione alla prova dei giovani”, AGCOM

L’uso dei social media, inoltre, è spesso associato alla formazione delle echo chambers (o “camere d’eco”), ossia degli ambienti virtuali che si creano all’interno di una piattaforma di condivisione online, in cui un utente si trova a visualizzare prevalentemente contenuti coerenti con le sue convinzioni e ideologie, e ad interagire maggiormente con altri utenti che condividono le sue stesse opinioni.

La questione delle fake news riguarda tutto l’ecosistema dell’informazione: vecchia, nuova, tradizionale e digitale. Infatti, la mistificazione delle notizie non è un fenomeno recente, anzi è una costante della storia della politica e in generale del potere. Il punto è che oggi gli strumenti digitali e l’uso disinvolto che se ne fa, favoriscono una moltiplicazione del fenomeno.

Da qui la disintermediazione, quel processo per cui il lettore della notizia passa direttamente alla fonte, in una sorta di bypass mediatico dove viene abolito qualsiasi filtro professionale tra la realtà dei fatti e il suo racconto. Questo provoca come conseguenza un’ondata di inaffidabilità, di approssimazione e anche di menzogna che probabilmente ha dimensioni superiori rispetto al passato.

Il rapporto tra giovani e informazione nella ricerca dell’Università Pontificia Salesiana

Di disintermediazione e del rapporto tra i giovani e l’informazione ne abbiamo parlato con Paola Springhetti, giornalista e docente della Facoltà di Scienze della Comunicazione Sociale presso l’Università Pontificia Salesiana. Springhetti ha curato insieme alla docente Maria Paola Piccini, una duplice ricerca sul rapporto tra i giovani, l’informazione e l’Agenda Onu 2030 per lo Sviluppo Sostenibile.

Tra maggio e giugno 2021 è stato somministrato un questionario on line a 451 giovani di età compresa tra i 18 e i 32 anni. Nonostante il campione selezionato dallo studio sia un campione di convenienza, quindi non generalizzabile all’intera popolazione target, i risultati offrono spunti importanti per capire il rapporto tra i giovani e l’informazione.  

Alla luce della ricerca da lei condotta, come i professionisti dell’informazione e della comunicazione possono avvicinarsi con più efficacia ai giovani?

«Da quello che emerge dalla nostra ricerca risulta che i giovani si informano soprattutto sui social media oppure con i telegiornali o con il web – n.d.r.  dalla ricerca risulta che il 74,4% dei giovani intervistati leggono quotidiani, settimanali e periodici tradizionali mai o raramente. La contraddizione è che dicono di non fidarsene, quindi il motivo per cui si utilizzano soprattutto questi strumenti è che ce li hanno a portata di mano, ci si trovano. Quando si chiede loro quali siano le fonti principali di cui si fidano, al primo posto indicano le fonti scientifiche e i centri di ricerca. In secondo luogo, in generale le persone competenti e persino amici e parenti, mentre lasciano all’ultimo posto i media. Credo che per avvicinare i giovani, il primo passaggio sia di ritornare ad essere credibili, proporsi come tali. I media hanno perso un po’ di credibilità. C’è da dire che i giovani sembrano fidarsi ancor meno dei politici che dei media. Questo è il problema: riconquistare la credibilità nei confronti dei giovani che, altrimenti, non seguono il sistema dell’informazione tradizionale».

Le testate giornalistiche tradizionali tentano di attirare nuovi lettori sul web, attraverso abbonamenti in offerta e accordi con i colossi social come Facebook e Instagram. Secondo lei è questa la strada giusta per coinvolgere i giovani o bisogna lavorare sul “modo” di fare informazione?

«Secondo me vanno portate avanti entrambi i modi. La nostra ricerca è stata condotta sui giovani dai 18 ai 32 anni, quindi su un arco abbastanza ampio. Probabilmente un trentenne è più disposto a fare un abbonamento. Al di sotto di quest’età mi sembra difficile che questo avvenga perché i ragazzi più giovani sono per natura ondivaghi. Sicuramente bisogna proporre un’offerta sul web che sia ricca ma anche in qualche modo accessibile. Se i giovani usano i social network, fra le altre cose, è perché lì è tutto gratis. Dall’altra parte, per la carta stampata e i contenuti web più qualificati come le inchieste e gli approfondimenti, probabilmente converrebbe continuare a seguire la strada della qualità anche se magari si fa qualche click in meno, però ci si propone come fonte affidabile e questo prima o poi paga. Rincorrere i social network non mi sembra la soluzione migliore. Fra l’altro noi diciamo social network, ma in questi c’è di tutto: ci sono i contenuti auto-generati dagli utenti ma ci sono tanti link, alcuni dei quali portano anche alle testate tradizionali dell’informazione, solo che poi spesso i contenuti non sono accessibili. In ogni caso, mi sembra che limitarsi a rincorrere una facile popolarità su social non porti lontano, proprio perché i giovani stessi dicono “sì, ho i social sottomano, però mi fido di altro”».

Qual è la sua opinione in merito alla crescente perdita di autorevolezza del giornalismo tradizionale che, per effetto della disintermediazione, lascia spazio all’anarchia dei social e alla proliferazione di fake news, prodotte da chiunque senza l’obbligo di seguire le regole di una corretta informazione? Crede sia possibile una inversione di tendenza?

«Mi piacerebbe poter dire di sì. Penso che ci sarà sempre gente che rincorrerà i social, ma penso anche che ci siano cittadini consapevoli che invece cercano l’informazione di qualità. Bisogna ripartire da qua per allargare questo pubblico più attento. Peraltro, anche nei social ci sono spazi in cui si diffonde l’informazione di qualità, penso ad alcuni gruppi su Facebook, alcuni spazi su Twitter che effettivamente lanciano anche dei contenuti seri. Ma un’inversione di tendenza in tempi brevi non la vedo. Hanno ragione i giovani quando dicono di avere l’app dei social sul cellulare che li porta ad informarsi direttamente su Instagram. È indubbio che i social ci tolgano un sacco di tempo che una volta forse era dedicato alla lettura del giornale o anche di un libro, però è altrettanto vero che un’informazione di qualità educa il cittadino che la incontra, ci si abitua e poi continuerà a cercarla. Bisognerebbe porre più attenzione sul ruolo che hanno in merito le agenzie educative a partire dalla scuola, ma questo è un altro discorso».

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