SeF III: la voglia di lavorare insieme verso un orizzonte condiviso

Quando mesi fa sono entrata per la prima volta nella sede della Fondazione Magna Grecia non sapevo bene cosa aspettarmi – o forse mi aspettavo semplicemente l’ennesimo e noioso colloquio conoscitivo. Invece, appena entrata, ho trovato un ambiente vivace e dinamico. Mi sono seduta ad un grande tavolo nero, in una stanza ampia di un antico palazzo nel centro di Roma. La musica di David Bowie riecheggiava a tutto volume, il sole caldo primaverile batteva sulle finestre. “Ti dà fastidio il volume alto?”, già da quella domanda avevo capito che mi trovavo nel posto giusto. Dopo qualche settimana arriva la chiamata della conferma che avrei fatto parte del team che avrebbe dato vita a SUDeFUTURI III.

Ma cos’è SUDeFUTURI? Non solo un progetto iniziato nel gennaio 2019. È una missione: il perseguimento di una visione ideata e portata avanti da Paola Bottero e Alessandro Russo con la Fondazione Magna Grecia e il suo presidente Nino Foti. SUDeFUTURI è la realizzazione della profonda convinzione che il Mezzogiorno ha tanti orizzonti luminosi davanti a sé. Un ventaglio di variopinte opportunità che bisogna, però, saper cogliere e valorizzare.

È il coraggio di credere che le cose possono e devono cambiare. Sono le giornate passate in ufficio, fatte di ore di lavoro davanti al pc, formazione, condivisione di idee, progettazione e soprattutto tante risate. È la stesura della prima edizione cartacea del nostro Magazine. SUDeFUTURI è le persone che lo hanno portato avanti.

Soprattutto è amore per un territorio meraviglioso che ciascuno di noi si porta dentro, in modo e misura diversa. C’è chi, come me, ha per un quarto origini calabresi, chi al Sud ci è nato ma è stato costretto a lasciarlo, chi da lì è scappato volontariamente e chi ci va solo in vacanza. Ma alla fine al Sud, in un modo o nell’altro, si torna sempre.

E ci sono tornata, ci siamo tornati. Perché SUDeFUTURI quest’anno è stato un luogo specifico, che mi ha riportata alla mia infanzia in Calabria. A Scilla c’è un borgo dove il tempo si ferma. Chianalea è un microcosmo in cui a riecheggiare instancabile è il rumore del mare, che la notte ti culla facendoti cadere in un sonno profondo, e la mattina ti sveglia dolcemente. Apri gli occhi e le aspettative sulla giornata che è appena iniziata diventano di colpo ovattate: il rumore delle onde, che si infrangono sulle minuscole rientranze dei minuscoli vicoli del borgo, trasmette una sensazione di benessere e conforto immediato.

Ma Scilla è fatta soprattutto di persone. Lì l’ospitalità è una regola: non fai in tempo a prendere possesso della camera dove pernotterai che già ti viene offerto lo spritz al bergamotto, una delle specialità della casa. E poi i taglieri con i prodotti tipici della Sila, la parmigiana e i panini al pesce spada, lo stocco in umido e chi più ne ha più ne metta. Già al secondo giorno senti l’esigenza di dover fare un po’ di attività fisica.

E allora gambe in spalla, si raggiunge a piedi la location di SUDeFUTURI III: il Castello Ruffo, che da secoli fa da guardiano a Scilla e allo Stretto di Messina. Una volta raggiunta la cima del paese, con il computer in borsa e il badge al collo che segue i tuoi movimenti, ti chiedi se non fosse stato meglio fare un colpo di telefono a Maurizio. Lui è un uomo sulla cinquantina, con il sorriso perennemente stampato in volto, che ogni estate torna a Scilla per gestire il servizio di taxi veloce e trasportare i visitatori con il mezzo che più si presta agli stretti vicoli del borgo: la “lapa”- che io, da brava romana, mi ostinavo a chiamare “l’ape” o “l’apetta”. “Pazienza, la prenderò domani”, mi sono ripetuta ogni mattina. Alla fine l’ho presa solo l’ultimo giorno, godendomi comodamente la vista della Costa Viola.

Il Castello Ruffo è un vero è proprio castello, nel senso che quando ci entri dentro ti sembra di tornare indietro nel tempo. Si viene accolti da una vista mozzafiato. Scilla si presenta come un quadro: una distesa di mare che appare cristallino perfino da quell’altezza, incorniciato dalle case del borgo di Chianalea e dai ristoranti, con le loro piattaforme bianche, da cui se butti una pagnotta in mare stai sicura che arriveranno flotte di pesci a divorarla.

Ma il vero Castello si scopre scendendo una rampa di scale usurate dal tempo. Percorsi i gradini si entra nella sala dove, per tre giorni, si è svolto SUDeFUTURI III. Il palco, le telecamere, le poltrone dei relatori, le luci, il ledwall, le sedie del pubblico ancora vuote. Mesi e mesi di lavoro di colpo hanno assunto forma: una sala convegni trasformata in un vero e proprio studio televisivo. In fondo alla sala, ad accogliere gli ospiti affascinati dalla location, la regia e l’ufficio stampa dove avviene la magia.

L’arrivo dei primi relatori, la sala che si riempie – in pieno rispetto delle normative Covid, sia chiaro – e le telecamere che si accendono. Su quel palco, per tre giorni, si sono alternati oltre 60 ospiti. Professionisti dei settori più diversi hanno generato un flusso costante di idee, interrotto solo dagli spunti di Paola Bottero e Alessandro Russo, che hanno moderato le sessioni coadiuvati da Paolo Mieli e Fabrizio Frullani. Temi diversi, un denominatore comune: (R)innovare il Mezzogiorno.

Niente romanticismo meridionalista, moralismo e vittimismo: la tre giorni si è colorata di proposte concrete, opinioni schiette e sottili provocazioni. Un vero e proprio talk show che abbiamo organizzato nei minimi dettagli. Un continuo botta e risposta sui delicati aspetti che affliggono il Sud da sempre. Ma non solo soluzioni e rimedi: si è parlato soprattutto di essere umani. Perché per risolvere gli atavici problemi del Mezzogiorno c’è bisogno di condivisione, confronto e contaminazione, di prendere ciascuno qualcosa dell’altro.

Questo ha rappresentato SUDeFUTURI: la voglia di lavorare insieme per raggiungere un obiettivo comune. Un seme di speranza in un deserto di pessimismo cronico. Abbiamo dato una vetrina al Mezzogiorno, mettendolo al centro della notizia e dell’attenzione che si merita. Tutto questo non sarebbe stato possibile senza il duro lavoro di una squadra affiatata, un insieme di ingranaggi che si incastrano alla perfezione. A testimonianza del fatto che sono le persone il vero motore del cambiamento.

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