Nel Sud degli stereotipi ostinati, tra pizza, nduja e tarantella, esiste (meglio, resiste) una mappa di luoghi bollati come perduti. Interi pezzi di territorio che problematiche criminali, degrado e narrazioni banalizzanti hanno imposto all’immaginario collettivo come zone off limits. Posti da evitare (se ci viaggi vicino), da ignorare o nascondere (se ci vivi accanto). Fortunatamente c’è chi non evita, ignora o nasconde e, tra una narrazione demonizzante e una contronarrazione vittimistica, ha intrapreso una terza via: riprendersi i luoghi negati, camminando e raccontando tutte le facce della complessità. Danilo Dolci scriveva che rivoluzione è curare il curabile profondamente e presto, è rendere ciascuno responsabile. In questo senso, quello che sta avvenendo in alcuni luoghi del Sud è una rivoluzione. Una prova? Saliamo sull’Aspromonte, in Calabria, ed entriamo tra i banchi del mercato di Ballarò, a Palermo.
L’Aspromonte cammina
Eccolo il santuario dell’Anonima, la roccaforte naturale delle cosche, la terra inviolata delle bande, la misteriosa e dannata montagna simbolo dei sequestri. L’8 maggio 1990, dalle colonne de La Repubblica, l’Aspromonte veniva descritto così. Non era un’eccezione nelle cronache della stagione dei sequestri di persona, quando, tra gli anni Ottanta e gli inizi degli anni Novanta, lungo i sentieri del massiccio montuoso reggino si scontravano forze dell’ordine e ndranghetisti, e nei covi le vittime pregavano per la loro liberazione. Dalla maggioranza degli inviati, in cerca di un tocco di esotismo, la punta dell’Appennino calabro veniva tratteggiata con i contorni di un posto malefico capace di partorire solo banditi.
È un brutto periodo per chi ama l’Aspromonte: mentre tanti sognano l’arrivo di un esercito armato fino ai denti, in pochi, armati solo di scarponi da trekking, si avventurano tra faggeti e pini, tracciando sentieri (Alfonso Picone Chiodo per il Cai, Sandro Casile per il Gea). Sono pionieri, convinti che la montagna vada pacificamente rioccupata, e stanno aprendo il cammino a tanti. Diego Festa li segue a stretto giro: «Nel 1995 mi ero iscritto al Cai di Reggio Calabria perché volevo camminare nella natura: in quel periodo, quando raccontavi che la domenica facevi escursioni in Aspromonte, ti guardavano tutti come un supereroe, come se fosse un’impresa off-limits. Con la montagna, però, fu amore a prima vista e non l’ho più lasciata”. Tanto da decidere, contro ogni apparente buon senso, di investirci il proprio futuro. “Ho lasciato un posto di lavoro remunerativo per dedicarmi alla montagna».
Una scommessa vinta, a quanto pare. Guida ambientale ed escursionistica (e guida ufficiale del parco d’Aspromonte), Festa ha fondato “Misafumera”, per preporre, con altri soci, percorsi di trekking nelle terre del Sud. «Ricordo ancora il primo gruppo di escursionisti che ho guidato in Aspromonte: erano dei pensionati triestini arrivati con l’immagine stereotipata della montagna fuorilegge, misteriosa». Un’immagine che lo stato di molti paesi aspromontani, dissanguati dallo spopolamento e abbandonati al degrado, rischia qualche volta di rafforzare. «In Aspromonte non si può fare solo la guida ambientale, bisogna fare anche i mediatori culturali: l’Aspromonte va spiegato, senza tacere i problemi ma mostrando anche le luci».
Nei circa 64.153 ettari del Parco nazionale dell’Aspromonte, di luci ce ne sono tante: flora e fauna ricchissime, cascate, grotte, antichi borghi, 8 geositi di rilevanza internazionale (l’Aspromonte fa parte della rete mondiale dei Geoparchi Unesco). Eppure per Festa non ci sono dubbi: «La cosa più bella sono gli incontri con la gente. L’aspetto umano è fortissimo». Una fama, questa volta positiva, che deve aver fatto breccia portando i primi gruppi di avventurosi a moltiplicarsi con gli anni: «L’Aspromonte è sempre più richiesto dai camminatori che vengono dalle altre regioni d’Italia». Ma c’è un secondo fenomeno, forse ancora più importante: «Negli ultimi 8 anni è iniziata l’esplosione dell’escursionismo locale. Ci sono tanti ragazzi e moltissime ragazze che vogliono andare in montagna e in natura, scoprendo il proprio territorio ed educandosi bello». La creazione di nuove associazioni da parte di giovani reggini (Passi narranti fondata da Noemi Evoli e AspromonteWild, tra gli altri) e il recupero di antichi percorsi (Il sentiero del Brigante) sono i segni di questa riappropriazione gioiosa dell’ex montagna “dannata”, avvenuta semplicemente camminandoci dentro.
Ballarò, cuore vivo di Palermo
Anche per capire Ballarò bisogna incamminarsi tra i suoi vicoli, con la testa libera dai trionfalismi di chi lo osanna come riuscito laboratorio multiculturale, e dai disfattismi di chi che lo giudica una polveriera. A Palermo, nell’antico quartiere dell’Albergheria, la zona che si sviluppa attorno al mercato storico più antico della città non si presta a banalizzazioni. Origine araba, presente multietnico (vi risiedono 15 diverse comunità), status popolare con sacche di drammatica marginalità, Ballarò oscilla ad ogni angolo tra degrado e bellezza: dalle bancarelle coloratissime di frutta e verdura, le tipiche abbanniate (le grida dei venditori) arrivano in cima ai severi palazzi nobiliari e alle chiese, ma a terra restano, tra case dirupate, le piazze di spaccio, prostituzione, povertà, abusivismo e rifiuti.
È un complesso meccanismo, Ballarò. Dove basta una sigaretta negata o una spintone involontario per far esplodere i malumori di mondi lontani costretti a stare vicini. E se si sta provando a contrastare la vecchia immagine di quartiere “pericoloso” puntando su arte ed esotismo per attirare i turisti, la vera sfida a Ballarò è viverci ogni giorno. Ma sono in tanti a non tirarsi indietro, nel segno di un protagonismo civico che unisce vecchi e nuovi cittadini. Per rispondere ai bisogni della gente del quartiere, per esempio, oltre 30 realtà associative hanno deciso di lavorare insieme creando nel 2015 il comitato “Sos Ballarò”. È stato solo l’inizio: nel giro di qualche anno sono spuntati il “Ballarò Buskers” (festival internazionale delle arti de strada), progetti di street art e di contrasto alla povertà educativa, mentre i commercianti si sono uniti nell’associazione “Mercato storico di Ballarò”. Un fermento che suggerisce una cosa chiara: anche a Ballarò, come in tanti altri luoghi del Sud, non si resta più in fatalistica, o vittimistica, attesa della salvezza ma si prova ad incidere sui territori, riscrivendone un destino all’apparenza immutabile. Fortunatamente. Perché se è vero che “si cresce solo se sognati” (Dolci), per crescere, il Sud ha bisogno di essere sognato innanzitutto dai suoi cittadini.