Spaziani Testa, presidente di Confedilizia, spiega che una grossa fetta dei locali destinati a uso commerciale è di proprietà di pensionati e cittadini con redditi medio-bassi: a causa dei canoni non versati c’è un altro mondo in grave difficoltà
Il Covid-19 ha penalizzato il già asfittico mercato della compravendita immobiliare, ma ha anche inferto un duro colpo al mercato delle locazioni. Il lockdown ha causato una crisi di liquidità che, a catena, ha avuto conseguenze sul pagamento degli affitti: soprattutto locazioni commerciali, ma anche di lavoratori e studenti fuori sede. Nell’immaginario collettivo le vittime della crisi sono gli inquilini.
Il proprietario, tutto sommato, ha altre risorse per sopravvivere. Resiste la rappresentazione di una sorta lotta di classe 2.0 che vede da una parte l’avido palazzinaro e dall’altra l’inquilino sfortunato e sfruttato (e, per ora, non sfrattato). La realtà è però più complessa.
Thomas Piketty ha già spiegato che il patrimonio, oggi, non si accumula più: semplicemente si eredita. Guardandosi intorno senza pregiudizi, si può anche scoprire che una moltitudine di locali e piccoli immobili adibiti ad uso commerciale sono stati acquistati anni fa da pensionati o impiegati. Si tratta di proprietà acquisite con il Trattamento di fine rapporto o accendendo un piccolo mutuo, per garantire ai propri figli o a se stessi una quota di solido e nazionalpopolare “mattone”, re del risparmio e dell’investimento made in Italy. Così oggi succede che gli affitti servono ad integrare un reddito basso o, addirittura, un reddito inesistente. Sono tanti, infatti, i cittadini che hanno ricevuto in eredità un immobile, che non hanno un reddito fisso e che, mettendolo in affitto, cercano di garantirsi un’entrata minima. Senza con questo voler fare di ogni proprietario immobiliare un lacrimevole Oliver Twist, il problema esiste ed è diffuso. Giorgio Spaziani Testa, presidente di Confedilizia (Confederazione italiana proprietà edilizia), l’associazione punto di riferimento per tutti i proprietari di immobili, si sottopone settimanalmente all’assalto dei media che devono riempire i vuoti lasciati dal virus con numeri, norme e codicilli, polemiche, proposte, difese di categoria, rivendicazioni. E alla fine gli riesce arduo far passare un concetto semplice: un negozio chiuso significa (anche) un affitto non pagato. Ergo, i redditi danneggiati sono due: quello del commerciante e quello del proprietario. Se fatica a mangiare uno, fatica a mangiare anche l’altro.
con i commercianti anche i proprietari in ginocchio
Iniziamo dai locali commerciali. Il lockdown ha messo in ginocchio i proprietari nonostante provvedimenti tipo tax credit (limitato ai negozi in categoria catastale C/1). Se arrancano gli operatori commerciali è difficile pensare a una ripresa celere. La ripartenza sarà lenta, in Confedilizia come pensate che se ne debba uscire?
Analizzando la questione dal punto di vista della proprietà, costituita molte volte da famiglie di piccolissimi investitori, quindi da persone fisiche, e in altri casi da società che svolgono attività di locazione immobiliare, dividerei il problema in due. Sì, bisogna pensare alla riapertura, ma prima bisogna risolvere il problema dell’emergenza. Mi spiego meglio. Per le attività che sono state chiuse per legge è assolutamente necessario provvedere al ristoro totale di alcune spese, fra cui quella del canone di locazione. Spero che questo intervento per gli esercenti si faccia, in particolare per il pagamento degli affitti – che sono una componente fondamentale – in aggiunta al credito d’imposta, da rafforzare e ampliare, non da sostituire. Se tutto ciò sarà fatto il più presto possibile, allora si potrà passare alla fase successiva. Il tempo sta passando rapidamente, molti hanno difficoltà a riprendere. Guardando in prospettiva, ai mesi e agli anni successivi, si dovrà favorire la locazione commerciale riducendo la tassazione sui canoni. Ciò potrà consentire alle parti di trovare accordi utili. Se l’inquilino fatica a ripartire perché arrivano meno clienti, il proprietario sarà più incentivato a venirgli incontro se lo Stato – per esempio – invece di tassarlo 80 lo tassa 40.
si invoca la cedolare secca
Si torna a invocare la cedolare secca sui contratti esistenti per i negozi, un modo per tassare meno le locazioni e permettere ai proprietari di rivedere il canone.
Questo per le persone fisiche, ma potrebbe valere tranquillamente anche per le imprese, perché i contratti sono lunghi e quindi uno deve ragionare in prospettiva. Se l’inquilino chiede di abbassare il canone del 20% per i prossimi 5 anni, io come proprietario devo fare un calcolo, che diventa intollerabile se comporta più spese che altro. Invece, se la pressione fiscale si attenua, il rapporto diventa più semplice. Aggiungo che siamo in una situazione talmente critica – a meno di non trovarsi nelle vie migliori di Roma o Milano, dove resta comunque difficile fare i conti con la crisi – che se un commerciante va via è difficile trovarne un altro. Arrivare a un punto d’incontro conviene a tutti, agli inquilini e ai proprietari: ma lo Stato deve fare la sua parte.
negozi, più della metà dei locali in affitto appartiene a persone fisiche
I dati dell’Agenzia delle entrate ci dicono che in Italia le unità immobiliari di categoria catastale C1 (negozi e botteghe) sono 1.977.624. Di queste, 1.577.714 sono di proprietà di persone fisiche e 399.133 appartengono ad altri soggetti. Quelle locate da persone fisiche sono 809.959, vale a dire il 51% dei negozi posseduti da questa categoria. Numeri importanti, perché sgombrano in parte il campo da questioni ideologiche su ricchi proprietari e poveri affittuari. Più che di società parliamo di persone. Oggi la proprietà perlopiù si eredita e, per molte di queste persone, una seconda casa data in affitto è una fonte di reddito che integra uno stipendio magari esiguo o una pensione di anzianità. Per non parlare di quelli per cui il canone riscosso è l’unica fonte di reddito.
Premesso che anche il cosiddetto ricco o la grande società hanno diritto a ricevere il canone, così come il ristoratore ha il diritto di farsi pagare dal cliente che consuma un pranzo o una cena, certamente è difficile far comprendere la situazione reale. Lo ripetiamo spesso, non perché amiamo ripeterlo ma perché ce n’è bisogno. Purtroppo nell’opinione pubblica – e di riflesso in certa politica e in certa stampa – c’è una tendenza a fare un ragionamento di quel tipo. Invece è vero il contrario e ce lo confermano anche le statistiche fiscali: si tratta di tanti piccoli risparmiatori e spesso di famiglie con bassi redditi. Il reddito medio dei locatori italiani è medio-basso, cioè la maggior parte di loro ha un reddito che non sta negli scaglioni Irpef più alti. Si tratta in moltissimi casi di pensionati che vent’anni fa hanno comprato un piccolo locale commerciale, magari in un piccolo centro, investendo parte dello stipendio oppure, cosa molto frequente, la liquidazione. Un investimento che, in molti casi, al lordo rende 600 o 700 € al mese, figuriamoci al netto. Per questo noi segnaliamo da anni il problema dei piccoli locali commerciali, ben prima di questa tragedia. Quei locali sono quasi sempre occupati da piccoli commercianti, che già prima del Coronavirus erano in grande difficoltà per l’espandersi dei centri commerciali e del commercio elettronico. Il problema non va risolto agendo solo sulla tassazione, ma anche favorendo a livello comunale certe attività. Altrimenti l’alternativa sarebbe quella che già vediamo in tante città: locali vuoti, che portano anche degrado. Per la locazione commerciale sono tutti tasselli dello stesso fenomeno: se il piccolo imprenditore è in difficoltà, sono in difficoltà i suoi dipendenti ed è in difficoltà quello che gli mette a disposizione l’immobile, perché fatica a ricevere il canone.
fondo di sostegno all’affitto con versamenti diretti
In Italia vivono in affitto 4 milioni di famiglie. Molte sono in difficoltà. Ma anche in questo caso l’altra faccia della medaglia è costituita da piccoli proprietari che vedono venir meno una parte del proprio reddito. Confedilizia e il Sunia (il Sindacato degli inquilini) chiedono al Governo il rifinanziamento del fondo di sostegno all’affitto: qualche esperto dice che potrebbe essere efficace se si contemplassero procedure snelle e il versamento diretto delle somme al proprietario.
La proposta di rifinanziamento del fondo di sostegno all’affitto è del Sunia, perché è evidente che ci sia un interesse comune in tal senso. Quel fondo serve a dare aiuto agli inquilini ma anche a favorire l’attuazione di procedure rapide. In sostanza il Sunia dice – e noi sottoscriviamo – che bisogna far arrivare i denari direttamente nelle tasche dei proprietari. Se lo dicono loro, a noi sta (ovviamente) bene. Vuol dire ottenere la massima garanzia che quei soldi non siano indirizzati ad altro se non al pagamento dei canoni. Un’altra soluzione da affiancare è la previsione di detrazioni per i canoni pagati. Ora ce ne sono minime e per situazioni estreme: possiamo affermare che – di fatto – non ci sono. La detrazione favorisce la lotta al sommerso e garantisce agli inquilini un peso ridotto sul canone. Aggiungo che quando il rapporto tra le nostre associazioni territoriali e i sindacati locali degli inquilini si mantiene a livelli in cui, da una parte o dall’altra, non ci sono barricate o bandierine da piantare, ma si pensa a lavorare per favorire accordi, certamente i risultati arrivano. In generale è vero che ci sono tanti casi in cui la proprietà della cosiddetta seconda casa non è un lusso. Cioè non è appannaggio dei cittadini cosiddetti benestanti, ma spesso di persone che hanno un’abitazione acquistata con un mutuo e un altro immobile ricevuto in eredità, magari in un piccolissimo centro. Alla fine, la seconda casa per alcuni si rivela più un peso che un bene da godere o da far fruttare.
l’idea del mercato di sostituzione e la questione Imu
Per quanto riguarda le compravendite c’è chi propone di favorire il mercato di sostituzione, che in sostanza si basa sulle permute tra case vecchie e case nuove. Tutto questo attraverso la sospensione per cinque anni dell’imposta di registro sulla vendita dell’alloggio vecchio a detrazione del prezzo del nuovo.
Chi promuove questa tesi è l’Aspesi, Associazione nazionale tra le Società di promozione e sviluppo immobiliare, aderente a Confedilizia. È una proposta che da un lato serve a favorire la messa sul mercato di immobili nuovi che non riescono ad essere piazzati, mentre dall’altro serve a recuperare qualcosa di vecchio, che ha bisogno di ristrutturazione. Va notato che la proposta non avrebbe costi, perché il fenomeno della permuta non si verifica e se si riduce (o si elimina) la tassazione, in teoria non ci sarebbe alcun problema per le casse dello Stato. Ma anche in questi casi si fatica a far passare il concetto. In ogni caso, visto che nessuno è disposto a favorire nuove costruzioni, la cosa da fare ora è riqualificare l’esistente. Si parla di future detrazioni al 100% per le riqualificazioni, credo sulla falsariga del 90% del bonus facciate. La strada è giusta, ma su un punto bisogna essere chiari: purtroppo in molti casi i soggetti interessati non hanno il reddito per applicare una detrazione. Serve a ben poco la detrazione dall’Irpef spalmata su cinque o dieci anni se uno ha un reddito bassissimo, oppure non ce l’ha proprio, pur essendo proprietario di un immobile. Probabilmente bisognerebbe cominciare ad occuparsi di più dell’Imu. La nostra proposta è di toglierla, almeno nei comuni fino a 1000-2000 abitanti. Non costerebbe tanto allo Stato e si contribuirebbe a salvare qualche piccolo borgo dallo spopolamento.