Con l’emergenza Coronavirus le persone sono sempre più alla ricerca di un’informazione verificata e attendibile, mentre le fake news perdono efficacia. I commentatori “con il sopracciglio alzato” contano sempre meno
«Forse il Coronavirus, insieme alla catastrofe umanitaria che ha prodotto, ci sta riportando al rispetto per la realtà delle cose». In fondo Antonio Padellaro non fa altro che dare voce alla speranza. La speranza di quelli che il mestiere di giornalista lo fanno (più o meno) per vocazione e magari conservano un’idea romantica della notizia. Padellaro ha vissuto l’epoca d’oro della carta stampata: responsabile della redazione romana del Corriere della sera, vicedirettore de L’Espresso, ha diretto l’Unità, ha fondato e diretto il Fatto Quotidiano (di cui è presidente). Oggi i suoi commenti sono tra i più letti ed è uno degli opinionisti televisivi più presenti e apprezzati. Vive in quello che, con una figura retorica, definiremmo un “osservatorio privilegiato”. Eppure nemmeno lui poteva immaginare che il Coronavirus o Covid 19, insieme alla tragedia umanitaria ed economica, portasse fame di notizie attendibili e solide. I Cavalieri Jedi della notizia verificata sembrano mettere in difficoltà le fake news del Lato oscuro della Forza.
Il virus colpisce anche la post-verità
La post-verità, per definizione, ci porta a credere a quelle cose che si accordano alla nostra mentalità, ai nostri valori o pregiudizi, senza preoccuparci che siano fondate o no. Lee McIntyre parla di “un contesto in cui l’ideologia ha la meglio sulla realtà, perché quale sia la verità interessa poco o niente”. Fino a un paio di mesi fa la guerra contro le fake news sembrava persa. Chi le diffondeva non aveva bisogno di costruire prove fasulle, contava solo che i concetti fossero accattivanti, semplici, che parlassero alla pancia. E ora? Davvero, Padellaro, i “buoni” possono andare alla riscossa?
«Partiamo da un libro, si chiama Fake: è uscito il 20 febbraio e l’autore è il saggista francese Christian Salmon. Il sottotitolo è “Come la politica mondiale ha divorato sé stessa”. È un testo molto interessante perché racconta come – attraverso l’uso strategico delle fake news – Trump e Bolsonaro siano arrivati al potere, o come in molti paesi d’Europa si siano imposte le forze sovraniste. Questo libro, uscito alla vigilia dell’esplosione del Coronavirus, non tiene conto del fatto che, per l’informazione, c’è una fase che precede il virus e una fase che è successiva. In quella successiva, paradossalmente, il Covid 19 sta uccidendo le fake news, o così pare. Quei personaggi che hanno utilizzato le menzogne oggi sono alle prese con un’epidemia che non sanno controllare. Invece, paradossalmente, l’opinione pubblica si fida più della comunicazione ufficiale. Le conferenze stampa della Protezione civile o gli annunci del Presidente del Consiglio Conte hanno ascolti molto alti e suscitano un forte interesse. Al contrario, tutto ciò che non ha riscontro nei fatti non conta più. O meglio, conta soltanto per le persone che vogliono credere alle balle, e quindi continueranno a essere convinti che gli asini volano. Ma quelli rappresentano ormai una cifra minore rispetto alla domanda di autenticità che viene dalla gente».
Gli inutili sceriffi delle fake news
Alla luce di questo ragionamento a che serve una task-force per individuare le fake news? Non si dovrebbe ripartire da “cosa” è il giornalismo?
«Il giornalismo può approfittarne per rilanciarsi. Il giornalismo è ricerca delle notizie, è controllo delle fonti e della veridicità delle cose che vengono dette. Questo è il momento, per il giornalismo, così definito, di segnare una rivincita rispetto alle menzogne spacciate per notizie. Non so a cosa possano servire comitati o task-force di giornalisti, anche bravi, chiamati a fare gli sceriffi delle fake news. Se vogliono darci qualche elemento di conoscenza in più benvenuti, ma non è questo quello che serve. Serve giornalismo».
L’informazione digitale sempre più determinante
Il giornalismo professionale, così come l’abbiamo conosciuto fino a qualche anno fa, sembrava in grande declino, destinato alla scomparsa. Restavano il ricordo dell’epoca d’oro della carta stampata, il mito dei grandi giornalisti d’inchiesta, la filmografia quasi epica del mestiere che ha prodotto fino a qualche tempo fa opere come il Caso Spotlight. Poi è arrivato il Coronavirus e, come già in parte detto, invece di notizie mordi e fuggi che inseguono i lettori ora troviamo lettori che inseguono notizie verificate e approfondite. È uno squillo di tromba illusorio? È il segno di una possibile rinascita del mestiere?
«Certamente. Tu hai parlato di carta stampata e (purtroppo) credo che il tema dello strumento di questo giornalismo sia il vero problema da affrontare. La carta stampata continua a calare, le edicole continuano a chiudere, ma allo stesso tempo c’è un forte impulso alle copie digitali. Faccio l’esempio del Fatto Quotidiano che nell’ultimo mese ho avuto un incremento fortissimo su questo fronte. È indubbio che il mezzo di diffusione stia cambiando e che in futuro il digitale sarà prevalente. Ma la sostanza dell’informazione, quel giornalismo di cui parlavo prima, sarà rafforzato. Si chiederà al digitale di dare sempre di più, di fornire sostegni audiovisivi a notizie, approfondimenti, interviste, servizi speciali».
Non a caso l’epica dei giornali cani da guardia della democrazia non era legata all’uso della carta stampata in sé, ma al fatto che le notizie fossero solide, affidate a testate indipendenti dal potere politico ed economico, e che dietro ci fosse solo un lavoro duro e approfondito da parte dei giornalisti.
«Hai citato giustamente Spotlight, che è il film sull’inchiesta condotta dal Boston Globe sulla pedofilia a Boston, che portò poi alla scoperta di uno scandalo senza precedenti che ha investito la Chiesa cattolica americana. Chi ha visto il film e chi ha letto i resoconti del Boston Globe sa quale fatica, quale impegno quell’inchiesta abbia prodotto. La fake news ha la caratteristica di essere veloce, la balla è rapida, la menzogna non costa lavoro. Ma produrre un’inchiesta di quella portata, che richiede anni di fatica e problemi ai cronisti, è l’esempio di cosa sia il giornalismo. L’inchiesta giornalistica può arricchire non solo la conoscenza, ma la democrazia stessa. Perché senza un’informazione libera, ma anche verificata, la democrazia ha dei problemi».
La “notizia suggerita” e il “pregiudizio di conferma”
Accanto al tema delle fake news c’è anche quella che Umberto Eco chiamava la tecnica della notizia suggerita. Amplifichi in prima pagina, o in apertura di un tg, la notizia di Tizio che a Caltanissetta urla che assalterà un supermercato, ne aggiungi un’altra di Caio che a Viggiù urla che se non lo fanno uscire non risponderà delle sue azioni, et voilà: l’Italia è pronta alla rivolta. Ovviamente il problema delle tensioni sociali è serio, molta gente è davvero alla fame, la burocrazia in alcuni casi dà il peggio di sé, ma è come se alcuni ritenessero che sia utile (a chi?) alimentare un clima di tensione continua. Si narra che una volta un grande direttore dicesse: prima di titolare che Londra è nel panico, telefonate a tutti gli abitanti e accertatevi che lo siano davvero.
«In questi casi agisce il cosiddetto pregiudizio di conferma. C’è una fascia di utenti dei social soprattutto – ma anche di lettori di giornali che praticano questo modo di fare informazione – che vuole credere a quello che legge. I produttori di notizie artefatte non fanno altro che rispondere a una domanda di questo genere e offrono a questo pubblico particolare quello che questo pubblico vuole leggere o ascoltare. È un problema ineliminabile. Il punto vero riguarda il resto degli utenti dell’informazione, i quali sempre più numerosi vogliono sapere come stanno le cose. Da questo punto di vista la responsabilità delle cosiddette fonti ufficiali diventa molto più forte. Non possono più permettersi di dire cose che non abbiano un fondamento, devono basarsi su dati certi e verificati e verificabili».
La chiave del presente è l’autenticità
È davvero così inefficace, come in molti sostengono, la comunicazione del Governo? Come mai gli errori di comunicazione – quelli reali e quelli montati per polemica – sembrano avere poco peso nell’opinione pubblica?
«Credo che ci sia un problema per chi, in qualche modo, gestiva informazione prima del Coronavirus. Il giornalista da divano, quello che prima dell’epidemia comunicava il verbo della verità dicendo “questo è giusto, questo è sbagliato”, si è trovato improvvisamente di fronte a un fenomeno che non controlla. Oggi si può continuare a dire “è giusto” o “è sbagliato” quello che fa il Governo, ma chi ti ascolta può anche disinteressarsi del tuo parere. Chi per giorni e giorni ha detto che l’allarme del Governo era esagerato ed è andato in televisione o sui giornali a dire “apriamo tutto”, è stato poi favolosamente smentito dai numeri e qualche giorno dopo ha dovuto dire “chiudiamo tutto”. È così che finisce la credibilità della fonte, del giornale e degli opinionisti. Questo modo di fare sta già condannando questi commentatori prêt-à-porter al loro destino, cioè essere ininfluenti. L’importante, oggi, è la percezione collettiva rispetto quello che dice il Governo: non è il piano degli “evviva Conte” o “abbasso Conte”, ma del “credo” a quello che dice Conte oppure “non ci credo”, penso che Conte stia facendo il massimo, pur con tutti i suoi limiti, oppure penso che sia una macchietta. Il riscontro è nella reazione dell’opinione pubblica, non nelle reazioni dei commentatori sempre col sopracciglio alzato, che ci dicono cos’è giusto o cos’è sbagliato. Costoro non funzionano più, non contano più, ormai appartengono al passato. Io voglio sapere se posso fidarmi di chi mi sta parlando. Voglio sapere, inoltre, se le cose che sta dicendo sono provate sufficientemente perché io possa dargli retta. I guru e i cosiddetti opinion leader fanno ridere se parlano guardando al proprio ombelico, mentre possono essere ascoltati se aggiungono un elemento di analisi di competenza alle cose che il Governo dice. La parola chiave del presente è autenticità. Ormai la discriminante è questa».
I media di fronte a un bivio
Non ritieni quantomeno strano, soprattutto in questo periodo, che i media amplifichino il fenomeno dei giornalisti che ritengono di essere più importanti delle notizie che danno?
«Non c’è dubbio. Ma ogni giorno che passa questi sono solo dei sopravvissuti, peraltro in un periodo di piena crisi dell’Editoria. Piano piano gli organi d’informazione dovranno fare una scelta sugli investimenti da fare. E se l’investimento va dato alla cura e alla ricerca della notizia, alla qualità dell’informazione e dei commenti, non si potranno più buttare soldi investendo su cosiddette firme che non fanno altro che esporre pensierini che non interessano più ad alcuno. Ormai il tempo dedicato all’informazione è un tempo preziosissimo, che deve essere investito su ciò che è veramente importante per affrontare i problemi della vita. Oggi non voglio semplicemente leggere un ennesimo commento più o meno polemico o più o meno scritto bene. Voglio sapere se domani, quando cominceranno a riaprire le attività del nostro Paese, bisognerà chiedere all’Europa di sostenerci in un modo piuttosto che in un altro. Voglio saperlo non sul piano della polemica contro o a favore dell’Europa, ma sulla base di dati reali».